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Accogliere l’innovazione ma impedirle di erodere i fondamenti della convivenza

di Oreste Pollicino

Socio fondatore di IAIC

Quando si parla di Intelligenza artificiale, l’attenzione è stata, da più di due anni, catturata dalle applicazioni generative: strumenti che scrivono testi, producono immagini, compongono musica o simulano conversazioni. È stato un fenomeno sorprendente e in parte destabilizzante, perché ha reso evidente che attività che pensavamo riservate all’ingegno umano potevano essere emulate da un calcolo statistico sofisticato. La nuova frontiera è rappresentata da sistemi che non attendono più soltanto un comando, ma che sanno muoversi da soli, imparano dalle interazioni, prendono iniziative. Li chiamiamo agenti, ma in realtà sono molto più di una funzione tecnica: sono strumenti che assumono comportamenti proattivi, capaci di organizzare il lavoro, fare scelte economiche, orientare la nostra esperienza digitale quotidiana.

Per comprendere le implicazioni di questa svolta non basta guardare all’efficienza o alle opportunità di mercato. Bisogna interrogarsi su cosa accade ai principi che sorreggono la convivenza civile in Europa, e che derivano da una lunga tradizione costituzionale. Il primo di questi principi è la centralità dell’essere umano. Non è uno slogan astratto: significa che la persona non può mai essere ridotta a semplice strumento dell’efficienza tecnica. Eppure, con gli agenti intelligenti, la tentazione è proprio questa: lasciare che sia un software a occuparsi di scelte che un tempo appartenevano alla sfera individuale, trasformando l’uomo in un osservatore delle decisioni prese al suo posto.

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