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Il contact tracing e la questione privacy. Intervista al Prof. Avv. Giorgio Resta ed al Prof. Avv. Vincenzo Zeno-Zencovich

Intervista a due voci per DIMT, con il Prof. Avv. Giorgio Resta, professore ordinario di Diritto privato comparato all’Università Roma Tre, e  il Prof. Avv. Vincenzo Zeno-Zencovich, professore ordinario di Diritto comparato all’Università Roma Tre.

 

Professor Resta, davvero il contact tracing ci obbliga a rinunciare alla privacy? Oppure è possibile bilanciare la necessità di tracciamento con la protezione dei dati personali?

G.R.: Credo sia anzitutto necessario distinguere tra tracciamento “manuale” e tracciamento “digitale”, due ipotesi ben diverse per i problemi che implicano, eppure spesso sovrapposte in maniera confusoria nelle pratiche discorsive. Il primo è il metodo tradizionalmente seguito per prevenire e contenere la diffusione delle malattie infettive e si basa su una serie di procedure collaudate – ben esplicitate nelle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità – le quali vanno dall’intervista del soggetto positivo, all’identificazione dei contatti, alla classificazione del rischio e infine alla comunicazione con i soggetti coinvolti. Il secondo è il sistema sperimentato in anni più recenti soprattutto nei paesi dell’Est asiatico e che si avvale dei big data al fine di ricostruire i contatti a rischio, eventualmente allertarli e adottare tutti i provvedimenti conseguenti, di un soggetto diagnosticato con una patologia trasmissibile come il COVID-19.

Se la domanda che mi ha posto si riferisce al tracciamento manuale, ebbene la risposta è più semplice. Benché sia indubbia una compressione del diritto alla protezione dei dati personali (trovo sia riduttivo discutere di privacy in questo contesto, perché parliamo anche di dati che sono pubblici e poco o punto confidenziali, come i luoghi frequentati da un soggetto), nessuno dubiterebbe che una siffatta limitazione sia non soltanto legittima ma socialmente desiderabile. Il diritto alla protezione dei dati personali non è stato mai concepito in Europa come una sorta di diritto dominicale sulla propria sfera privata – come alcuni movimenti libertari e i fautori delle tesi di impronta giuseconomicistica più radicali vorrebbero suggerire – ma ha sempre ricevuto una configurazione a geometria variabile in funzione della natura dei dati coinvolti e delle finalità del trattamento. Quando ci si trovi in presenza di un trattamento mirato al perseguimento di finalità di sostanziale interesse pubblico, quale l’individuazione dei soggetti a rischio e il contrasto a una pandemia, la compressione della sfera individuale deve ritenersi in linea di principio fondata su un’idonea base giustificativa (ai sensi degli artt. 6 e 9 GDPR) e dunque legittima. In tal senso basti richiamare il chiaro dettato del considerando 46 GDPR, che attesta la liceità del trattamento mirato a “tenere sotto controllo l’evoluzione di epidemie e la loro diffusione”; nonché il considerando 112, che ammette a dirittura il trasferimento di dati all’estero ai sensi dell’art. 49 GDPR “in caso di ricerca di contatti per malattie contagiose”, come ha ben evidenziato l’EDPB nelle linee guida sul contact tracing e in quelle sulla ricerca scientifica nel contesto pandemico.

 

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