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Tutela del pluralismo nell’era digitale: ruolo e responsabilità degli Internet service provider

1. Il perché di una riflessione sulla tutela del pluralismo nel mondo di Internet. Ha senso oggi interrogarsi su livello e modalità di protezione del pluralismo nell’era digitale, con particolare riferimento ad Internet? E in particolare, in caso di risposta affermativa, come sistematizzare, alla luce del dato normativo e giurisprudenziale rilevante, ruolo e responsabilità degli Internet service provider, con specifico riferimento ad una loro possibile inclusione all’interno del perimetro di estensione del c.d. Sistema integrato delle comunicazioni (SIC)? Per provare a rispondere a questi quesiti, alla base di questa ricerca, bisogna fare un passo indietro, sottolineando come il concetto di pluralismo dell’informazione abbia formato e formi tuttora oggetto di ampia e partecipata discussione, stimolata della prepotente rivoluzione che ha interessato il sistema dei media e dei servizi connessi. [1]

L’importanza e la portata di questo tema non potrebbero comprendersi, infatti, se non alla luce del fenomeno di digitalizzazione che ha mutato in modo dirompente le tradizionali modalità di trasmissione e fruizione di alcuni servizi, un tempo relegati a un regime giuridico coerente con lo stadio tecnologico vigente: il riferimento corre, in particolare, al settore della radiotelevisione, esempio più emblematico di come la scarsità delle risorse disponibili avesse imposto una gestione del servizio in regime di monopolio affidato allo Stato. Assume totale evidenza, così, il rapporto che lega il dato tecnico a quello regolamentare, ove si osservi come il passaggio da uno scenario di scarsità delle risorse a uno caratterizzato dalla moltiplicazione delle stesse si sia tradotto nell’implementazione di regole volte a stimolare, ma al tempo stesso anche a salvaguardare, la concorrenza nei mercati che si sono sviluppati nel settore delle comunicazioni. Non solo nel sistema radiotelevisivo, infatti, si è assistito a una proliferazione degli operatori, ma nuove opportunità e nuovi mercati si sono aperti soprattutto con l’emersione prima e l’esplosione dopo di Internet. [2] In questi termini il legislatore si è proposto di garantire, in un settore strategico e di rilevanza costituzionale come quello dell’informazione, piena attuazione al principio pluralistico, in modo da evitare che la presenza di alcuni operatori dotati di notevole potere economico potesse tradursi nella creazione di posizioni dominanti e assorbenti. La maggiore difficoltà nella definizione di regole concorrenziali, tuttavia, è rappresentata dalla corretta individuazione dei mercanti rilevanti che possano rientrare nel settore delle comunicazioni. Si tratta di una questione particolarmente critica, cui il dato legislativo non risponde in modo soddisfacente, lasciando spazi piuttosto ampi di ambiguità che fondano plurimi interrogativi.

Queste incertezze, che caratterizzano tuttora il dato normativo vigente, hanno fatto strada a ipotesi di riconsiderazione del perimetro del sistema dell’informazione fondato sulla nozione di Sistema integrato delle comunicazioni di cui all’art. 2 del D. Lgs. 177/2005 (“Testo Unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici”, di seguito anche “TUSMAR”, adottato in attuazione della delega contenuta nella legge 112/2004, “Gasparri”). Il tema, in particolare, riveste profili di attualità in considerazione dell’evoluzione che ha contraddistinto la fisionomia degli Internet service provider, il cui ruolo appare sempre più distante dalla conformazione normativa che per prima la direttiva 2000/31 aveva delineato, presupponendo una neutralità operativa in funzione di un’ipotetica equidistanza tra fornitori di contenuti e utenti. L’individuazione del sistema integrato delle comunicazioni da parte del legislatore è parsa fondarsi sulla riconducibilità agli operatori attivi nei mercati rilevanti di una responsabilità di tipo editoriale rispetto alla produzione di un contenuto. Questa impressione era confermata, fino a poco tempo fa, dall’esclusione dal paniere del SIC dei soggetti che si fossero limitati a effettuare una mera prestazione di servizi, quali gli Internet service provider. E, d’altro canto, la stessa (unica) disciplina vigente per i servizi Internet, quella racchiusa nel D. Lgs. 70/2003, e adottata in attuazione della Direttiva 2000/31/CE, lasciava adito a tale interpretazione, non prevedendo alcunché in merito al ruolo dei provider rispetto ai contenuti, ma limitandosi a configurarli come prestatori di servizi. Su questo punto si registrano le principali criticità. L’evoluzione della struttura della rete e la dimensione partecipativa del web 2.0 hanno fortemente rimesso in discussione le tradizionali categorie di inquadramento del ruolo svolto dagli Internet service provider, stimolando riflessioni e ripensamenti circa la disciplina vigente e la sua adeguatezza. Ma, specialmente, questi interrogativi hanno riguardato la presunta estraneità ai contenuti, elemento cruciale cui la vigente disciplina àncora la misura dell’attuazione del principio pluralistico, dei provider, in funzione del ruolo di sempre più stretta contiguità con le operazioni eseguite dagli utenti che sono beneficiari dei rispettivi servizi. Si assiste infatti ad alcuni tentativi, specialmente di matrice giurisprudenziale, di prefigurare un ruolo partecipativo da parte dei provider rispetto alla creazione di contenuti, ossia di un ruolo di “non neutralità” o “non passività” in relazione alle attività eseguite dagli utenti.

Queste tendenze rendono attuale l’interrogativo sull’opportunità di considerare questi soggetti nell’ambito dei mercati rilevanti sui quali è fondata la verifica del pluralismo nel sistema delle comunicazioni. Se, infatti, su un piano prettamente concorrenziale è necessario evidenziare la rilevanza degli operatori Internet, non altrettanto pacifico è l’impatto che tali soggetti esercitano sul piano della garanzia del pluralismo nel settore dell’informazione. Il presente studio intende allora proporre una panoramica su quelle decisioni giurisprudenziali che hanno in qualche modo paventato o scongiurato un avvicinamento tra fornitori di servizi e fornitori di contenuti, così da verificare quali conseguenze potrebbero determinarsi rispetto all’attuazione del principio pluralistico. Dopo aver rapidamente esplorato in funzione prodromica il fondamento costituzionale del pluralismo nella dimensione interna ed europea, si procederà all’analisi della casistica giurisprudenziale che più recentemente ha messo in discussione il tradizionale inquadramento degli Internet service provider, per verificare se effettivamente esistano margini per una loro equiparazione ai produttori di contenuti. Questa analisi dei casi non mancherà di considerare anche alcuni profili comparati, per offrire una panoramica dell’attuale scenario al di fuori dei confini nazionali. In conclusione, si formuleranno dei rilievi critici rispetto ad alcune questioni problematiche relative al ruolo degli Internet service provider (ISP) ai fini dell’attuazione del principio pluralistico nel settore delle comunicazioni.

2. Il fondamento costituzionale del pluralismo nella dimensione europea e italiana. – Si è detto, nel paragrafo che precede, che il presente scritto mira a verificare l’impatto in termini di tutela del pluralismo del recente ampliamento del Sistema integrato delle comunicazioni ai proventi derivanti dalla raccolta pubblicitaria online. [3] Una dissertazione su questo tema non sarebbe pienamente comprensibile se non fosse preceduta da alcuni sintetici riferimenti alla dimensione costituzionale che il pluralismo dell’informazione riveste nell’ordinamento nazionale, così come in quello europeo. [4] Soltanto un quadro definitorio in grado di restituire una rappresentazione chiara del valore che la Costituzione affida al pluralismo consente infatti di apprezzare, in tutta la sua pienezza, la traduzione legislativa che questa declinazione della libertà di informazione ha incontrato. Occorre, innanzitutto, porre in evidenza come nella dimensione europea la libertà di informazione conosca una plurima declinazione [5]: accanto alla libertà di informazione nel suo profilo attivo, intesa come posizione soggettiva del titolare della libertà di informazione, cioè di colui che “elabora e diffonde presso il pubblico notizie, fatti, informazioni”, si identifica una dimensione passiva di questa libertà, concepita come “libertà-diritto di essere informati” oltre a un versante per così dire “mediano”, corrispondente al diritto dei consociati di ricercare informazioni. [6] Il concetto di pluralismo è emerso in particolare in rapporto alla dimensione passiva della libertà di informazione.

Non è stato inutile, a questo proposito, lo sforzo profuso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo rispetto all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, specialmente prima che, per effetto dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ottenesse espressamente dignità di diritto dell’Unione. Quest’ultima disposizione, in particolare, oltre a delineare con chiarezza la ricordata natura “pluridimensionale” della libertà di informazione (già evidente nell’art. 10 CEDU), espressamente sancisce, al par. 2, “la libertà dei media e il loro pluralismo”. La tendenza a richiamare le decisioni della Corte europea da parte tanto delle istituzioni, quanto della stessa Corte di giustizia dell’Unione europea si è manifestata con particolare enfasi proprio in questo ambito, dove maggiormente contributori è apprezzato il contributo della Corte di Strasburgo nell’enucleare, muovendo dal testo dell’art. 10, il diritto dei cittadini a “un’informazione il piu possibile pluralistica e non condizionata dalla presenza di posizioni dominanti”. [7] Va detto che il pluralismo dei media rappresenta senz’altro un principio generale dell’Unione europea: e questo non solo perché i diritti sanciti dalla CEDU, ma anche le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (nel cui ambito rientra il pluralismo dell’informazione) sono espressamente richiamati dall’art 6, par. 3 del Trattato sull’Unione Europea. Questi rilievi, è bene precisarlo, sono stati svolti dalla Corte di Strasburgo soprattutto in relazione al settore dell’informazione radiotelevisiva, dove più fortemente si è avvertita l’esigenza di affermare il principio pluralistico, anche in funzione dei mutamenti tecnologici che hanno reso possibile la coesistenza di operatori privati in settori precedentemente relegati a monopolio. [8]

Nell’interpretazione della Corte europea, si è data evidenza all’incapacità delle sole regole di concorrenza a garantire piena attuazione del principio pluralistico nel settore dei media, così da legittimare l’imposizione di alcune restrizioni funzionali alla tutela del diritto del cittadino ad un’informazione pluralistica. [9] Non bisogna tuttavia dimenticare che, oltre alle disposizioni contenute nelle carte a tutela dei diritti fondamentali che si sono ora richiamate, a livello europeo vi sono altre norme su cui si fonda la protezione del pluralismo dei media. Il riferimento corre all’art. 167 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. [10] Mentre questa disposizione attribuisce all’Unione il potere di favorire lo sviluppo culturale negli Stati membri, questi ultimi rimangono comunque i soggetti competenti ad adottare le politiche in materia di media che meglio rispondano alle loro irripetibili specificità. Perciò l’Unione europea non può in alcun modo sovrapporsi alla competenza degli Stati membri, ma può semmai promuovere, favorire o supplire alle iniziative necessarie in questo settore. Tutte le azioni finora intraprese dalle istituzioni europee in questo senso, infatti, hanno carattere programmatico [11] e si atteggiano come strumenti di soft law. [12] Nell’ordinamento italiano, l’art. 21 della Costituzione non offre, sotto un profilo testuale, una chiara base normativa al diritto di informazione. Piuttosto, è soprattutto alla luce dell’art. 10 della CEDU che diviene possibile individuare, nell’ambito di tutela offerto alla libertà di manifestazione del pensiero, anche la libertà di “comunicare e ricevere informazioni”. Ed è a quest’ultimo profilo, come si è visto, che inerisce il concetto di pluralismo, che viene così dotato di un fondamento costituzionale. L’attività di interpretazione in via evolutiva svolta dalla Corte costituzionale ha permesso al concetto di pluralismo di emergere, seppure gradatamente, come corollario del diritto a informarsi. [13] Anzi, è stato proprio il principio pluralistico a guidare la Corte costituzionale verso l’enucleazione di un vero e proprio diritto all’informazione. [14] Dapprima la Consulta ha indicato nell’art. 21 una norma che presiede alla tutela di ogni mezzo di diffusione del pensiero, valorizzando in particolare la stampa, “insostituibile ai fini dell’informazione dei cittadini”, strumentale alla “formazione di una pubblica opinione avvertita e consapevole”, [15] riconoscendo, per questa via, l’esistenza di “un interesse generale della collettività all’informazione implicitamente tutelato dall’art. 21 Cost.”. [16]

Lo stretto legame tra il concetto di pluralismo e la garanzia della libertà di informazione emerge soprattutto dalla giurisprudenza costituzionale sul sistema radiotelevisivo. In questa materia, infatti, la Corte si è fatta interprete di uno sforzo volto a un’effettiva implementazione, in un settore originariamente caratterizzato da un monopolio pubblico, del principio pluralistico. Già in una risalente pronuncia del 1974, la Consulta, giustificando la riserva statale allora vigente nel settore, pur con una sentenza di accoglimento parziale, ebbe a precisare che una tale situazione avrebbe potuto venire meno a condizione che fossero garantite “trasmissioni che rispondano alla esigenza di offrire al pubblico una gamma di servizi caratterizzata da obbiettività e completezza di informazione, da ampia apertura a tutte le correnti culturali, da imparziale rappresentazione delle idee che si esprimono nella società”. [17] Lungo l’intero iter giurisprudenziale della Corte costituzionale si coglie una visione del principio pluralistico che ne rivela la natura di baluardo di fronte al pericolo che l’impossessamento delle risorse tecniche da parte di pochi potesse infirmare l’effettività del diritto di informazione. L’elaborazione del concetto di pluralismo da parte della giurisprudenza costituzionale ha raggiunto una maturità apprezzabile, al punto che la Corte ha fatto propria la distinzione fra pluralismo esterno e pluralismo interno; indicando, col primo, la necessità che a tutti i soggetti sia garantita la possibilità di esprimersi liberamente nel settore dell’informazione; col secondo, l’esigenza che, in presenza di mezzi di informazione sotto il controllo pubblico, sia assicurato spazio a tutte le voci espressive delle diverse tendenze sociali, politiche, culturali e religiose. [18] Anche in materia di par condicio si ricorda un’affermazione particolarmente significativa del pluralismo da parte della Corte costituzionale: il pluralismo delle fonti, in particolare, è visto come condizione in grado di soddisfare l’ “imperativo costituzionale” racchiuso nell’art. 21 Cost. [19]

3. La disciplina italiana: la definizione del SIC la possibile esclusione dei provider. – Benché il tema del pluralismo abbia conosciuto un’elaborazione giurisprudenziale soprattutto nell’ambito del tortuoso percorso lungo il quale la Consulta si è adoperata per verificare la legittimità costituzionale del sistema radiotelevisivo, questo concetto riveste un’importanza che si estende all’intero settore delle comunicazioni. E ciò a dispetto del fatto, per esempio, che l’art. 21 Cost. citi in realtà in modo espresso soltanto il settore della stampa. L’apertura di un settore come quello radiotelevisivo all’iniziativa economica dei privati potrebbe apparire come lo strumento di piena attuazione del principio pluralistico. E tuttavia, anche per effetto di alcune contingenze tipiche della situazione italiana, si è reso necessario evitare che la garanzia del pluralismo risultasse menomata a causa della concentrazione di eccessivo potere di mercato in capo ad alcuni operatori. Questa esigenza ha indotto il legislatore italiano a introdurre norme finalizzate a contenere la quota di mercato riconducibile ai singoli soggetti attivi sui mercati rilevanti nell’ambito del Sistema integrato delle comunicazioni. Si è così realizzato un enforcement del principio di libera concorrenza nel settore radiotelevisivo e del pluralismo esterno nell’ambito più generale del Sistema delle comunicazioni. [20]

Si annida così un potenziale conflitto tra pluralismo, garantito dall’art. 21 Cost., e libertà di iniziativa economica, sancita dall’art. 41 Cost., un conflitto che, secondo la Corte costituzionale, va risolto in ogni caso a favore del primo. [21] All’attuale conformazione normativa si è giunti all’esito di alcuni interventi legislativi che si sono susseguiti nel corso degli ultimi due decenni. Il cui obiettivo comune era senz’altro individuare un ambito cui parametrare la misurazione del potere di mercato dei rispettivi operatori, ma i cui risultati non hanno propriamente brillato. Già la legge “Maccanico” (L. 249/1997) era intervenuta, rispetto al testo della previgente “Mammì” (L. 223/1990), per adeguare i limiti di concentrazione del potere di mercato nel settore delle telecomunicazioni, superati i quali si considerava una posizione come “dominante”. [22] Tuttavia, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale con la sent. 466/2002, veniva dichiarata l’illegittimità della legge nella parte in cui essa non definiva una scadenza determinabile del regime transitorio ivi disciplinato. La legge Gasparri, dal canto suo, ha ulteriormente amplificato le perplessità già esistenti: pur abbassando la soglia per considerare esistente una posizione dominante al 20% (rispetto al precedente 30%), la legge ha allargato a dismisura la base di calcolo, definendo il Sistema integrato delle comunicazioni in modo da comprendervi quanto di più eterogeneo fosse possibile. Proprio l’incertezza generata dalle scelte compiute dal legislatore italiano, non del tutto immuni da rilievi critici, è alla base dei motivi di riflessione che si intendono esporre. Attualmente, infatti, tale sistema comprende le attività inerenti alla stampa quotidiana e periodica, all’editoria annuaristica ed elettronica (anche per il tramite di Internet), alla radio e ai servizi di media audiovisivi, al cinema, alla pubblicità esterna, alle iniziative di comunicazione di prodotti e servizi, nonché alle sponsorizzazioni. [23] Su questo terreno, però, la nuova versione dell’art. 43, c. 10, TUSMAR, come si è già ricordato, amplia il novero delle attività rilevanti alla raccolta pubblicitaria effettuata tramite motori di ricerca, piattaforme sociali e di condivisione.

In particolare, la novella ha inserito fra i ricavi che compongono il Sistema integrato delle comunicazioni gli introiti derivanti, per l’appunto, da pubblicità on line e sulle diverse piattaforme anche in forma diretta, incluse le risorse raccolte da motori di ricerca, da piattaforme sociali e di condivisione. Queste modifiche rendono attuale l’interrogativo sull’opportunità di considerare anche gli operatori del web nell’ambito del Sistema integrato delle comunicazioni e sulle conseguenze che da tale scelta scaturiscono sul piano della tutela del pluralismo. La questione di fondo, se si accetta di individuare nell’esercizio di una responsabilità editoriale legata alla produzione di contenuti il criterio guida per la definizione del Sistema integrato delle comunicazioni, si sposta sulla meritevolezza dell’estensione di tale responsabilità ope legis agli operatori del web. Proprio nell’ambito della consultazione avviata nel 2010, e conclusasi con l’adozione della delibera 555/10/CONS, l’AGCOM aveva osservato alcune difficoltà connesse all’individuazione di un mercato rilevante dell’editoria elettronica, evidenziando come, a dispetto del dato normativo (che menzionava allora il solo segmento specifico dell’editoria elettronica), e a prescindere dalla metodologia impiegata, si giungesse alla definizione di un mercato “più esteso dell’editoria elettronica, e che coinvolge tutte le forme di informazione presenti su internet”. [24] Muovendo da questo dato, l’Autorità rappresentava l’esigenza “anche in virtù delle potenzialità di internet ai fini del pluralismo, [di] un intervento normativo volto ad includere tutte le attività afferenti ad interne, come nel caso dei precedenti mezzi di comunicazione, che consenta una possibile indagine anche relativa a nuovi ambiti di attività particolarmente rilevanti nell’attuale stadio dell’evoluzione tecnologica”. [25]

Un’analoga proposta di ampliamento, peraltro, era pervenuta dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato attraverso un’apposita segnalazione indirizzata al Parlamento dal presidente Pitruzzella. [26] Proprio perché il presente studio si propone di analizzare se l’assimilazione che si è realizzata sia effettivamente fondata sui presupposti che hanno guidato –in passato- l’individuazione del perimetro del SIC e alla luce delle caratteristiche che contraddistinguono le modalità in base alle quali questi ultimi operano, non possono essere taciute, nell’introdurre questo obiettivo critico, le incertezze che hanno accompagnato la definizione di tale ambito. Un aspetto cruciale è infatti rappresentato dall’individuazione dei mercati rilevanti, operazione che è funzionale alla definizione della soglia di ricavi sulla quale è parametrato il potere di mercato di ciascun operatore. Non a caso, su tale questione si erano appuntate le critiche di coloro che, all’indomani dell’entrata in vigore della legge Gasparri, vi avevano intravisto una “diluizione” della base di calcolo mediante la quale si sarebbe contenuta entro i limiti di legge la quota di mercato riferibile al gruppo Mediaset. Ha suscitato discussioni, inoltre, la scelta compiuta dal legislatore di circoscrivere il SIC ai soli produttori di contenuti, escludendovi, per converso, i fornitori di servizi. Una tale opzione normativa rispecchia una visione distorta della nozione di pluralismo, assumendo che per realizzare tale obiettivo fosse sufficiente una distribuzione concorrenziale dei contenuti, senza considerare l’impatto effettivo che l’offerta di servizi determina nell’ambito dei mercati rilevanti. Così, il dato normativo appariva in passato inequivoco nell’escludere gli operatori Internet dal SIC, e tale scelta si coglieva in particolare in due passaggi. In primo luogo, l’art. 2 definisce i concetti rilevanti ai fini del TU soffermandosi, alla lett. a), sui servizi di media audiovisivi, che sono compresi nel SIC ai sensi della successiva lett. s).

La nozione di servizio di media audiovisivo indica, in prima battuta, un servizio “che è sotto la responsabilità editoriale di un fornitore di servizi media e il cui obiettivo principale è la fornitura di programmi al fine di informare, intrattenere o istruire il grande pubblico, attraverso reti di comunicazioni elettroniche” [27]. Due elementi caratterizzano così i servizi di media audiovisivi: la sussistenza di una responsabilità editoriale da parte del rispettivo fornitore e la funzione tipica di informazione, intrattenimento e istruzione. [28] Ebbene, non sembra potersi affermare che gli Internet service provider esercitino un controllo sui contenuti tale da generare una responsabilità editoriale. A ben vedere, anche le finalità tipiche dei servizi di media audiovisivi non sono proprie dei service provider, ma solo dei content provider. Vi è poi un secondo elemento, più esplicito, dal quale è possibile inferire come gli Internet service provider fossero originariamente estranei al Sistema integrato delle comunicazioni. La norma, infatti, dopo aver definito in positivo la nozione di servizio di media audiovisivo, ne precisa i confini attraverso l’esclusione di servizi diversi, fra cui quelli “prestati nell’esercizio di attività precipuamente non economiche e che non sono in concorrenza con la radiodiffusione televisiva, quali i siti Internet privati e i servizi consistenti nella fornitura o distribuzione di contenuti audiovisivi generati da utenti privati a fini di condivisione o di scambio nell’ambito di comunità di interesse”. Inoltre, la disposizione esclude altresì “i servizi nei quali il contenuto audiovisivo è meramente incidentale e non ne costituisce la finalità principale” e cita, a titolo esemplificativo, i motori di ricerca.

Queste disposizioni, così formulate, si sarebbero -seppure indirettamente- potute interpretare come conferma di un’esclusione dall’ambito del SIC degli Internet service provider. Tuttavia, va detto che tali norme sono enunciate con riferimento a una nozione più ristretta, e segnatamente quella di servizi di media audiovisivi. L’unico riferimento a Internet in cui ci si imbatteva nella definizione del SIC, tuttavia, era quello relativo all’editoria annuaristica ed elettronica. Ora, invece, tale ambito abbraccia anche i ricavi derivanti dalla raccolta pubblicitaria online. L’attuale dato normativo, tuttavia, non manca di sollevare alcune questioni critiche. In primo luogo, deve osservarsi come l’art. 43 TUSMAR preveda il raffronto tra due parametri eterogenei ai fini dell’individuazione della quota di mercato rilevante di ciascun operatore. Da un lato, infatti, la base di calcolo è fissata nel Sistema integrato delle comunicazioni, e comprende, dunque, tutti i ricavi derivanti dalle attività elencate al c. 10 dell’art. 43 [29]. Tuttavia, dall’altro lato la verifica in ordine al mancato superamento della quota del 20% dei ricavi così determinati –fermo restando il divieto di costituzione di posizioni dominanti nei singoli mercati rilevanti- non riguarda tutti gli operatori che svolgono le attività indicate al c. 10, bensì solo “i soggetti tenuti all’iscrizione nel registro degli operatori di comunicazione” [30].

Deve quindi essere messo in evidenza come l’allargamento del SIC non apre, formalmente, a operatori nuovi, diversi rispetto a quelli obbligati all’iscrizione nel registro degli operatori di comunicazione secondo la normativa previgente; piuttosto, la norma permette ora di ampliare la considerazione dei ricavi conseguiti sui mercati rilevanti ad attività (come la raccolta pubblicitaria) svolte online secondo modalità che hanno incontrato di recente un’importante diffusione. Naturalmente, queste innovazioni si traducono in uno spazio di indagine più esteso e nella valorizzazione di settori di mercato (e dei rispettivi operatori) che precedentemente esulavano dallo spazio individuato dall’art. 43. Questi primi rilievi sollecitano però un ulteriore ordine di considerazioni critiche. C’è da chiedersi, infatti, se i motivi sottesi alle innovazioni apportate al quadro normativo in materia siano o meno riconducibili al criterio della produzione di contenuti, che era apparso in passato dirimente per definire i confini delle indagini di mercato. Le scelte compiute da ultimo dal legislatore sembrano infatti guidate da considerazioni diverse, legate perlopiù alla raccolta di risorse che i players effettuano sui mercati rilevanti. Ma, oggi, alla luce di una struttura della rete sempre più lontana dalla sua conformazione originaria, dove il confine tra la produzione di contenuti e la prestazione di servizi si fa più sottile, è giocoforza dal luogo ad una riflessione sull’opportunità della scelta compiuta dal legislatore.

Una riflessione tanto più opportuna quanto più forte è la percezione della necessità –senz’altro innegabile- di un ripensamento dei connotati strutturali alla base del concetto di pluralismo in un ambito tecnologico come Internet. Tale riconsiderazione è intimamente connessa all’inadeguatezza della nozione di Sistema integrato delle comunicazioni fornita dalla legge Gasparri, che certamente scontava un’inevitabile obsolescenza per effetto degli avanzamenti tecnologici che negli ultimissimi tempi hanno fatto della rete il palcoscenico principale per la diffusione di contenuti, al punto da far emergere, nell’opinione della dottrina e delle corti, il convincimento che l’accesso a Internet integri ormai pienamente un diritto fondamentale [31]. In particolare, quest’opera di analisi non può prescindere dal considerare l’evoluzione del ruolo che gli Internet service provider, assoluti protagonisti del funzionamento della rete, hanno conosciuto nel corso dell’ultimo decennio, evoluzione che è possibile apprezzare, nella sua dimensione problematica, attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e delle corti italiane. Un commento delle più importanti decisioni in tema di responsabilità degli ISP – soprattutto nell’ambito di asserite violazioni del diritto d’autore, della privacy o di altri beni giuridicamente tutelati (l’onore e la reputazione, per esempio, nei casi di diffamazione online)- documenta come i giudici abbiano spesso faticato a qualificare il ruolo effettivamente esercitato dai provider di volta in volta interessati entro i limiti normativi che sono configurati dagli artt. 14, 15 e 16 del D. Lgs. 70/2003. Così pervenendo, infine, a compiere talora una forzatura del dato legislativo per coniare una nuova figura per così dire “ibrida”, diversa del mero provider passivo, l’hosting cosiddetto attivo, concepito come un provider non neutrale nella prestazione di servizi, così da attrarne la responsabilità in concorso con gli autori degli illeciti di volta in volta contestati. Ma che tale costruzione giurisprudenziale, a prescindere dalla sua tenuta, possa rappresentare un fattore che giustifichi l’inclusione nel SIC dei provider, è dato che oggi fa discutere. Ecco, allora, che la selezione della giurisprudenza rilevante qui proposta intende mettere in luce proprio quei casi in cui le caratteristiche delle (diverse) attività svolte dagli operatori sono parse orientare le corti a una qualificazione in un senso, piuttosto che nell’altro. Saranno così oggetto di indagine le decisioni sulla responsabilità dei provider, con speciale riguardo all’attività dei motori di ricerca e alla condivisione di contenuti audiovisivi mediante piattaforme video. Ciascuna area sarà esplorata con un approccio che unisca l’analisi della giurisprudenza interna con quella di altre esperienze giuridiche, che offrono un fondamentale parametro di riferimento.

4. Casi e ipotesi di responsabilità degli ISP: un percorso controverso. – Le decisioni emesse dalle corti nazionali, soprattutto nel contesto europeo, documentano come nel corso dell’ultimo decennio si sia assistito all’emergere di linee di tendenza diverse nell’interpretazione e applicazione della disciplina sulla responsabilità dei provider. La direttiva 2000/31 si iscrive in una strategia volta a sottrarre i prestatori di servizi da forme di responsabilità che ne avrebbero segnato, di fatto, la loro stessa fine. Sono state così introdotte regole che condizionano la responsabilità del provider in modo coerente con la sua natura di mero intermediario ma, come si è detto, se queste previsioni possedevano (e lo possiedono ancora) un senso a fronte di soggetti che svolgevano un ruolo del tutto passivo e neutrale rispetto ai contenuti veicolati tramite i loro servizi, il mutamento della fisionomia dei provider, sempre meno passivi e neutrali, ha rimesso in discussione l’effettiva applicabilità delle stesse. Non è un caso, allora, che lo scenario europeo in particolare offra uno spaccato caratterizzato da decisioni spesso contrastanti e da indirizzi non sempre univoci nel prestare tutela ai titolari dei diritti che nella rete incontrano una potenziale minaccia. [32]

La tendenza che può essere descritta sembra testimoniare, dopo un periodo di apparente diffidenza verso i provider, stimolato forse dal rafforzamento della disciplina a tutela dei diritti di proprietà intellettuale e che si è riflesso in decisioni perlopiù di condanna, un maggior favore (o un minor sfavore) verso gli intermediari, specialmente da parte delle più importanti corti europee. [33] Un punto di svolta, tuttavia, è stato certamente tracciato nel 2010 dalla Corte di giustizia dell’Unione europea che, se per un verso ha recepito, dall’altro ha cristallizzato gli standard in base ai quali le corti degli Stati membri avevano fino ad allora giudicato responsabili o meno i provider. Il caso riguardava la responsabilità del prestatore di un servizio di posizionamento in relazione all’illecito utilizzo come parole-chiave, da parte di terzi, di termini corrispondenti a segni distintivi altrui. La Corte di Lussemburgo ha richiamato la ratio sottesa alle esenzioni di responsabilità previste dalla Direttiva 2000/31, ricordando che tali previsioni operano con esclusivo riferimento al prestatore la cui attività sia di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, e che non conosca né controlli le informazioni memorizzate o trasmesse. L’elemento che la Corte ha individuato come cruciale ai fini della configurazione di una responsabilità del provider è rappresentato dalla sua neutralità. Tale apprezzamento, naturalmente, dev’essere condotto dalle corti nazionali avendo riguardo dei tratti caratteristici dell’offerta di servizi realizzata dal prestatore. Nella fattispecie, il giudice di Lussemburgo ha considerato le peculiarità di un servizio di keyword advertising, finalizzato alla visualizzazione di annunci pubblicitari a pagamento correlati alle ricerche effettuate dagli utenti. Rimane in ogni caso dirimente il richiamo della Corte alla necessità di appurare se le concrete modalità di prestazione dei servizi permettano di individuare o meno nel provider un operatore neutro, sì da trarne le necessarie conseguenze in termini di responsabilità. Rilievi che forse invocano, seppure indirettamente, la necessità di un intervento normativo in grado di cogliere la nuova fisionomia degli ISP.

4.1. L’attività dei motori di ricerca. – Nell’introdurre la descrizione della casistica mediante la quale ci si propone di verificare il livello di assimilazione o di differenziazione raggiunto, nelle decisioni delle corti italiane e straniere, tra content provider e service provider, le sentenze che hanno riguardato le attività svolte dai motori di ricerca documentano profili di grande momento. Alcune delle pronunce che si riscontrano in materia hanno avuto ad oggetto i servizi di completamento e di indicizzazione delle ricerche correlate. Tali funzioni si basano su un software che permette all’utente di completare la chiave di ricerca o di visualizzare le più comuni ricerche correlate effettuate da terzi. Tali operazioni sono svolte da un algoritmo che effettua in modo automatico un’associazione tra le parole chiave che risultano maggiormente ricercate dagli utenti. Questo meccanismo, tuttavia, ha prodotto in alcuni casi risultanze avverse agli interessati, i quali, immettendo nel motore di ricerca il proprio nominativo sperimentavano l’esistenza di associazioni poco gradite, spesso ritenute di natura diffamatoria, quantunque generate in automatico. Accadeva così che gli interessati agissero in giudizio nei confronti del gestore del motore di ricerca, ritenendolo responsabile per i contenuti di volta in volta contestati. In Italia, alcune decisioni sono addivenute a esiti contrastanti. La più vicina in ordine cronologico pare anche la meno propensa a configurare una responsabilità del provider in relazione ai contenuti [34]. Il Tribunale di Milano, nella fattispecie, ha rigettato il ricorso in via cautelare presentato dai rappresentanti di due enti non-profit, i quali lamentavano la visualizzazione, nel motore di ricerca di Google, di frasi offensive e lesive dell’onore e della reputazione loro e delle imprese di cui erano a capo. Secondo i ricorrenti, in base all’attività svolta, Google avrebbe dovuto configurarsi come un content provider, dal momento che le funzioni di auto-completamento e di generazione di ricerche correlate erano propriamente messe a punto dal provider, che sarebbe conseguentemente responsabile del contenuto visualizzato tramite i propri servizi.

Il Tribunale ha smentito la validità di questa ricostruzione. Non vale a qualificare Google come content provider, anzitutto, l’interfaccia del motore di ricerca, che – permettendo l’inserimento della parola -chiave- non integra null’altro che la forma di attivazione del servizio mediante associazione tra componente grafica e software, e non già un contenuto. Tantomeno non può valere a qualificarlo in tal guisa il funzionamento del software, dal momento che il servizio di auto-completamento “riproduce statisticamente il risultato delle ricerche più popolari effettuate dagli utenti, laddove Ricerche Correlate riproduce i risultati delle pagine web indicizzate e rese accessibili dal motore di ricerca partendo dai termini in questione”. Specifica inoltre il Tribunale che non esiste alcun archivio, né alcuna attività di organizzazione da parte di Google. Si tratta di un mero servizio di caching, consistente nella memorizzazione temporanea di dati svolta dal provider per agevolare le ricerche effettuate dagli utenti, senza alcuna responsabilità in relazione al loro contenuto [35]. Solo l’autorità giudiziaria, allora, può esigere da Google un intervento per la rimozione dei contenuti esistenti. Anche il Tribunale di Pinerolo ha recentemente consegnato una decisione di egual tenore in materia. [36] Si contestava, nella fattispecie, la comparsa – resa possibile dal sistema suggest search – di espressioni quali “indagato” e “arrestato” in associazione al nome e cognome del ricorrente. Google eccepiva che si trattasse di servizio reso in modo “del tutto oggettivo e neutrale sulla base dei contenuti immessi dagli utenti nel box delle ricerche di Google Web Search”. Il Tribunale ha rigettato il ricorso in via cautelare, ed è interessante notare come l’ordinanza abbia escluso la sussistenza di una responsabilità di Google sotto il profilo soggettivo (oltre che oggettivo). [37]

Secondo il giudice, il funzionamento del servizio di auto-completamento spiega che l’accostamento generato dal sistema è del tutto privo di valenza diffamatoria e non significa altro se non che un certo numero di utenti, in un dato momento, abbiano effettuato ricerche relative all’eventuale coinvolgimento dell’interessato in un procedimento penale. Nessun addebito può quindi essere mosso nei confronti di Google, che ad avviso del Tribunale di Pinerolo opera come hosting provider, con la conseguenza che non potrà rispondere dei contenuti visualizzati dagli utenti a meno che gli stessi abbiano natura illecita e di tale illiceità il provider abbia contezza. Queste pronunce, che sembrano rafforzare la separazione tra content e service provider, e così minare le fondamenta di una possibile assimilazione degli ISP ai produttori di contenuti, hanno modificato un opposto orientamento giurisprudenziale, che può essere descritto evocando una precedente decisione del Tribunale di Milano [38]. Nel caso di specie, un imprenditore ricorrente lamentava che Google non avesse provveduto alla rimozione degli abbinamenti tra il suo nome e cognome e alcune parole come “truffa” e “truffatore” generati dal sistema di auto-completamento delle ricerche. Google, dal canto suo, evidenziava come, operando alla stregua di un mero hosting provider, si limitasse a offrire una piattaforma di per sé neutra, “potenzialmente lesiva solo in virtù dei contenuti eventualmente illeciti immessi da terzi”, a esso non addebitabili. E, così qualificandosi, eccepiva che un intervento volto alla cancellazione dell’associazione tra le parole chiave avrebbe potuto ritenersi doveroso soltanto in presenza di un ordine in tal senso da parte dell’autorità giudiziaria, in conformità all’art. 16 del d.lgs. 70/2003. Il Tribunale di Milano, invece, accoglieva la domanda cautelare volta a ordinare a Google la rimozione dell’abbinamento contestato e confermava tale decisione anche nell’ordinanza pronunciata all’esito del reclamo.

Il ragionamento seguito dal giudice pare tuttavia aver trascurato non solo l’effettiva portata della disciplina sulla responsabilità dei service provider ma anche il funzionamento del software alla base del servizio di search suggest. Il Tribunale riteneva innanzitutto che il meccanismo di associazione tra le ricerche più ricorrenti integrasse in realtà una vera e propria forma di elaborazione dati. In secondo luogo, il Tribunale affermava che i motori di ricerca integrano senz’altro delle banche dati, che gestiscono, memorizzandole, le pagine web più visitate dagli utenti. Vi sarebbe quindi un’attività “organizzativa” nell’operare dei motori di ricerca. Il passaggio più critico della decisione del giudice si colloca su questo versante: secondo il giudice di Milano, l’abbinamento contestato dal ricorrente è frutto del sistema deliberatamente adottato da Google, e costituisce il prodotto di un attività che gli è direttamente riconducibile. [39] La scelta “a monte” di utilizzare quel particolare sistema, in grado di operare secondo determinati meccanismi, produce “a valle” la responsabilità del motore di ricerca per i risultati che tale sistema genera. Non appaiono tuttavia cristalline le motivazioni che hanno indotto il Tribunale a escludere l’applicazione delle esenzioni di responsabilità del provider: quest’ultimo risponderebbe degli effetti negativi sortiti dall’impiego di un meccanismo automatico, che lo stesso giudice riconosce in sé neutro, ma la cui neutralità viene meno in funzione dei risultati “impropri” generati dal sistema. L’auspicio è che, con le più recenti pronunce, sia stata segnata una linea di demarcazione che eviti, in futuro, il reiterarsi di dilatazioni (eccessiva) dell’area di responsabilità. In prospettiva comparata, non sembrano provenire buone notizie per i provider dalla Francia, dove su temi analoghi (l’ascrivibilità al gestore di un motore di ricerca di una responsabilità per diffamazione), bisogna dare atto di una pronuncia della Corte d’appello di Parigi [40] che ha radicalmente escluso la possibilità per il prestatore di beneficiare delle esenzioni di responsabilità. Il giudice francese, infatti, ha qualificato l’attività di search suggest come un servizio a tutti gli effetti editoriale, ritenendo non solo che fosse possibile un controllo sulle informazioni ma anche che il gestore del motore di ricerca avesse nozione dell’illiceità dei contenuti.

Queste inquietanti premesse hanno condotto la corte ad assimilare il legale rappresentante della società al direttore responsabile di un giornale online, con gli obblighi che ne derivano. Nemmeno il fronte tedesco si segnala per spunti particolarmente favorevoli ai provider. Lo scorso maggio, infatti, una sentenza della Corte di cassazione ha condannato Google alla rimozione dei risultati generati attraverso la funzione di suggerimento del suo motore di ricerca che erano stati ritenuti diffamatori dal ricorrente, il quale lamentava una lesione del proprio diritto alla personalità e alla reputazione. Le attività dei motori di ricerca possono risultare rilevanti anche sotto profili diversi dalla diffamazione. In particolare, il Tribunale di Roma [41] ha affrontato un caso in cui era in questione la responsabilità di Yahoo! per l’indicizzazione, attraverso il suo motore di ricerca, di alcuni siti Internet che diffondevano illegalmente il film “About Elly”. Mentre in sede cautelare il giudice aveva accolto il ricorso della società titolare dei diritti di sfruttamento economico, ritenendo che Yahoo! non avesse provveduto a riscontrare la diffida da questa inviata, con cui si chiedeva la rimozione, dai risultati indicizzati, dei siti che diffondevano il film in modalità streaming, l’ordinanza veniva revocata all’esito del reclamo. Il Tribunale, infatti, riteneva che non fosse stata offerta, dalla ricorrente, alcuna indicazione analitica (ma solo una segnalazione generica) dei collegamenti di cui veniva richiesta la rimozione. Per tale via, in altri termini, non si sarebbe potuto pretendere alcun intervento da parte del provider finalizzato alla cancellazione dei contenuti illeciti, un intervento che si atteggia come dovuto soltanto nell’ipotesi di una segnalazione che indichi in modo circostanziato i contenuti illeciti (ovvero di un ordine in tal senso emesso dall’autorità).

4.2. L’attività dei portali User-Generated-Content. – Un altro versante sul quale è interessante misurare la responsabilità degli ISP è rappresentato dalle piattaforme offerte agli utenti per la condivisione di contenuti. In questo campo, infatti, si registrano forse le pronunce più interessanti, dove emergono gli sforzi profusi dalle corti per differenziare ovvero assimilare i fornitori di servizi ai produttori di contenuti. Tra il 2009 e il 2010, Tribunale di Roma è intervenuto nell’ambito di un contenzioso che opponeva la piattaforma YouTube e RTI. Quest’ultima asseriva una violazione dei propri diritti per effetto del caricamento sul portale, da parte degli utenti, di sequenze di una nota trasmissione televisiva di cui risultava licenziataria in via esclusiva. [42] Tanto in via cautelare quanto in sede di reclamo, il Tribunale accoglieva le doglianze di RTI, giudicando l’ISP responsabile in ragione della “non neutralità” del ruolo svolto nella sua qualità di hosting. Secondo il giudice, infatti, il provider risponde degli illeciti compiuti dagli utenti “quando non si limiti a fornire la connessione alla rete, ma eroghi servizi aggiuntivi […] e/o predisponga un controllo delle informazioni”. Quando eserciti, in sostanza, una sorta di responsabilità editoriale. Aggiungeva la corte che tale responsabilità sussiste a maggior ragione quando, nonostante le ripetute diffide e la consapevolezza circa la titolarità dell’opera, il provider non agisca di conseguenza, come nel caso di specie, continuando a trasmettere le sequenze e, addirittura, “programmandone e disciplinandone la visione”. Emerge in queste pronuncia, come del resto in altre, una pericolosa tendenza a non distinguere forse adeguatamente tra due fronti: il piano della responsabilità del provider fondata sull’esercizio, da parte dello stesso, di un’attività editoriale, che lo escluderebbe dalle esenzione di responsabilità, e quello della responsabilità che deriva dall’inerzia del provider quando ricorrano le condizioni in presenza delle quali l’art. 16 del d.lgs. 70/2003 rende doveroso un intervento dello stesso volto alla rimozione dei contenuti. Il primo profilo è, all’evidenza, quello che più rileva ai fini di questa indagine.

Appare ormai consolidato l’impiego, da parte della giurisprudenza (non soltanto interna), di una serie di elementi denotativi della natura di hosting non passivo ovvero non neutro. Se ne inferisce così un ruolo “attivo”, che giustificherebbe l’addebito di responsabilità, per non essere il provider del tutto estraneo alla gestione dei contenuti. Rimane fortemente opinabile, tuttavia, che una simile fictio possa trasformare un service provider in content provider. Tale costruzione logica, infatti, è valsa vieppiù al fine di individuare la responsabilità di un soggetto ulteriore e diverso dall’utente per la presenza sul web di contenuti illeciti. Ma gli elementi valorizzati per addivenire a questa conclusione sembrano solo in parte configurare una responsabilità di tipo editoriale, e quand’anche la fondassero, una tale responsabilità difficilmente potrebbe comportare che una piattaforma di hosting sia equiparata a un vero e proprio produttore di contenuti e che, in quanto tale, assuma una posizione rilevante nel Sistema delle comunicazioni rilevante ai fini dell’attuazione del principio pluralistico. Sempre in tema di responsabilità del provider rispetto a violazioni (perlopiù del diritto d’autore) commesse sulle piattaforme video, si ricordano poi due decisioni del Tribunale di Milano. [43]  Ancora una volta l’attrice era RTI, che contestava come sui portali video, rispettivamente, di Italia OnLine e di Yahoo! figurassero, tra gli altri, sequenze di proprie trasmissioni televisive. La valutazione condotta dal Tribunale di Milano in entrambe le decisioni si dimostra da subito incline a riconoscere nel prestatore i tratti caratteristici di un hosting attivo e negare, conseguentemente, l’applicabilità delle esenzioni di responsabilità previste dall’art. 16 del D. Lgs. 70/2003, di cui il giudice offre un’interpretazione restrittiva. [44]

Non integrerebbe infatti un hosting meramente passivo, secondo il giudice, un provider che organizzi la gestione dei contenuti immessi dagli utenti e sfrutti commercialmente le inserzioni pubblicitarie a questi connesse. Altri elementi vengono enfatizzati dal Tribunale a sostegno della differenziazione di Italia OnLine e Yahoo! dalla figura dell’hosting neutro: fra questi, la regolamentazione contrattuale proposta agli utenti per la pubblicazione di contenuti, l’implementazione di un sistema di segnalazione di contenuti illeciti o inappropriati, la predisposizione di un motore di ricerca e la visualizzazione di video correlati [45]. Non tutti gli elementi evidenziati dal Tribunale si dimostrano di per sé sufficienti, ma è pacifico che dalla loro combinazione emerge una fisionomia del provider assai lontana da quella del mero hosting passivo, indifferente alla gestione dei contenuti, al quale la disciplina introdotta nel 2000 collegava l’esenzione di responsabilità. Occorre allora sollevare alcune questioni critiche. Dapprima, è giusto chiedersi se, una volta ammesso che il prestatore opera come hosting attivo, questi debba giocoforza ritenersi del tutto estraneo alla disciplina racchiusa nel d.lgs. 70/2003 o se, quantomeno, sarebbe opportuna una chiarificazione dei criteri, impiegati dalla giurisprudenza, di matrice legislativa. In secondo luogo, prende corpo un interrogativo legato ai fini di questa ricerca: la differenziazione, del tutto legittima e fondata, finalizzata all’addebito di una responsabilità per gli illeciti commessi dagli utenti, tra provider passivo e provider attivo, ricade necessariamente sulla qualificazione del prestatore come content provider anziché service provider? Su questo punto, in realtà, sembra prestare il fianco a una lettura negativa, che è anche quella che si auspica in questa sede, un passaggio della sentenza nel caso che ha riguardato Yahoo!. Il Tribunale di Milano, pur osservando che “i servizi offerti si estendono ben al di là della predisposizione del solo processo tecnico che consente di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione”, rileva che si è così individuato non già “un vero e proprio content provider, soggetto cioè che immette contenuti propri o di terzi nella rete e che dunque risponde di essi secondo le regole comuni di responsabilità”, bensì piuttosto “una diversa figura di prestatore di servizi non completamente passiva e neutra rispetto all’organizzazione della gestione dei contenuti immessi dagli utenti”.

Si tratta di un inciso di fondamentale importanza perché sembrerebbe confermare l’estraneità dell’hosting attivo, in ogni caso, alla produzione dei contenuti. L’ulteriore passaggio rispetto a queste considerazioni è verificare se, anche ammettendo una risposta affermativa al quesito di cui sopra (vale a dire l’assimilazione tra service e content provider), vi siano effettivamente conseguenze sul piano del pluralismo. La risposta potrà essere articolata più diffusamente soltanto oltre, ma è dato ritenere che, quand’anche ci si spinga a considerare in presenza di un content provider, nelle odierne piattaforme UGC i contenuti sono immessi normalmente dagli utenti e da loro o da terzi generati. [46] Il rapporto tra prestatore e contenuto, in altri termini, sarebbe soltanto indiretto. Sembrano meno problematici, invece, due casi in cui i giudici si sono concentrati su piattaforme di raccolta e organizzazione di siti finalizzati alla diffusione illegale di contenuti protetti dal diritto d’autore. In una prima pronuncia, resa dalla Corte di Cassazione penale, [47] era in questione la legittimità di un sequestro preventivo del noto sito The Pirate Bay, mediante il quale gli utenti erano in grado di scambiarsi, con operazioni di upload e download, contenuti protetti da diritto d’autore. La Cassazione ha ritenuto integrati i presupposti affinché il sito venisse sequestrato, dal momento che il relativo gestore non si era limitato a mettere a disposizione degli utenti un semplice protocollo di comunicazione per la condivisione di contenuti, ma aveva posto in essere attività ulteriori, tra cui l’indicizzazione dei contenuti immessi dagli utenti in un motore di ricerca. Proprio queste caratteristiche valgono, secondo la corte, a modificare la natura del sito che “cessa di essere un mero ‘corriere’ che organizza il trasporto dei dati” a causa di un “quid pluris” che fonda l’addebito di una responsabilità a titolo di concorso; diversamente, se fosse stato completamente “agnostico”, il sito sarebbe rimasto estraneo al reato.

La seconda decisione ha visto il Tribunale civile di Roma [48] condannare il gestore del sito Rojadirecta, piattaforma che permetteva il collegamento tra gli utenti e alcuni siti che trasmettevano illegalmente contenuti audiovisivi (in particolare, incontri sportivi) a titolo gratuito. L’attività svolta dal portale veniva descritta dal giudice come una forma di linking, attività astrattamente lecita ma perpetrata dal gestore del sito con l’obiettivo di uno sfruttamento commerciale attraverso la vendita di spazi pubblicitari. Gli elementi tecnici individuati dal giudice lasciano poco spazio a dubbi circa la sussistenza di un’attività agevolativa; fra questi, la predisposizione di elenchi dei siti e degli incontri trasmessi mediante operazioni di indicizzazione, la possibilità di sincronizzare le immagini con un commento nella lingua desiderata, la fornitura di istruzioni per il compimento di queste operazioni tecniche. Al ricorrere di queste condizioni, l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza non vale al gestore della piattaforma un’esenzione di responsabilità, giacché esso pone in essere un’attività agevolativa pienamente consapevole e illecita. Sullo stesso filone si colloca una decisione dello stesso Tribunale [49], che ha riguardato un provider sui cui server era ospitato un sito che diffondeva illegalmente, in modalità streaming, contenuti protetti da diritto d’autore. La pronuncia ha riguardato, per un verso, il gestore del portale, per altro verso, il provider che forniva lo spazio web. Quanto al primo, il giudice ha constatato come la sua attività fosse finalizzata allo sfruttamento commerciale dei contenuti inviati dagli utenti tramite la diffusione degli stessi a pagamento e la vendita di spazi pubblicitari. Come tale, il titolare non poteva ritenersi neutrale rispetto ai contenuti da lui organizzati e doveva considerarsi senz’altro responsabile per la violazione dei diritti facenti capo ai legittimi titolari. Discorso diverso, invece, per il provider che risultava titolare del server, parimenti convenuto in giudizio dall’attrice RTI. In questo caso, infatti, il Tribunale di Roma ha accertato che il prestatore operava come mero hosting passivo, limitandosi a fornire un servizio di memorizzazione permanente senza esercitare alcun ruolo nella trasmissione e selezione delle informazioni immesse nel sito.

Tantomeno, il provider avrebbe potuto rispondere per aver omesso la rimozione dei contenuti, dal momento che non risultava aver ottenuto conoscenza dell’illiceità delle attività poste in essere sul sito, né ricevuto alcun ordine in tal senso dalle competenti autorità. Non può poi tacersi almeno un richiamo all’epilogo che la vicenda Google Vivi Down ha conosciuto pochi giorni fa, quando la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di assoluzione pronunciata in appello [50]. Anche in questo caso non è mancata un’attenzione particolare al problema della verifica circa l’esistenza di una conoscenza effettiva in capo al provider circa l’illecito trattamento di dati personali realizzato dall’utente che aveva caricato il famigerato filmato in cui un minore affetto da autismo veniva fatto oggetto di scherno dai suoi compagni di classe. Sebbene da una prospettiva diversa, quella più squisitamente propria del diritto penale, la sentenza non si discosta –nel sondare i termini della responsabilità del provider- dai criteri seguiti dalle corti italiane in altri casi. Anche in merito all’attività dei provider che gestiscono piattaforme video, la comparazione con altre esperienze offre spunti di grande interesse. Su questo tema, per esempio, ha avuto modo di pronunciarsi tempo fa il Tribunale di Parigi [51]. Ancora una volta, era in questione se il portale YouTube esercitasse un’attività editoriale sui contenuti immessi dagli utenti. La risposta del Tribunale è negativa e poggia su varie motivazioni. Non configura un indice di attività editoriale, per esempio, la creazione di diverse sezioni video, fondate esclusivamente sulle statistiche delle ricerche e delle visualizzazioni effettuate dagli utenti. Ad avviso del Tribunale, non hanno parimenti pregio attività come la commercializzazione e l’inserimento di informazioni pubblicitarie associate al contenuto oggetto di riproduzione.

Così, YouTube si qualifica come un semplice hosting provider, che non esercita alcun controllo sui contenuti, se non quello richiesto dalla legge quando l’interessato segnali l’esistenza di contenuti illeciti. Interessa notare come il giudice francese non attribuisca alcuna rilevanza a una circostanza spesso valorizzata, all’opposto, dalle corti italiane: vale a dire la predisposizione di procedure che consentono agli utenti interessati di segnalare contenuti impropri o lesivi dei propri o altrui diritti al fine di ottenerne la rimozione dal portale. Mentre, come si è visto nelle due pronunce sui casi Yahoo! e Italia OnLine, il Tribunale di Milano aveva inferito anche da questo fattore che i provider gestori delle rispettive piattaforme video non operassero in modo neutro e meramente passivo. Bisogna comunque riconoscere che la sentenza del Tribunale di Parigi ha forse sottovalutato alcuni degli indici (si pensi allo sfruttamento commerciale della raccolta pubblicitaria) cui è normalmente correlato, nella giurisprudenza, l’apprezzamento della natura di hosting attivo dei gestori di portali video. Rimane in ogni caso importante l’enfasi sull’assenza di una responsabilità di tipo editoriale. In Spagna si è assistito, davvero recentemente, a una pronuncia [52] in cui la Audiencia Provincial Civil de Madrid ha respinto il ricorso presentato da Telecinco contro la sentenza che aveva mandato esente da responsabilità YouTube per l’asserita pubblicazione di contenuti in violazione del diritto d’autore. Confermando la decisione di prime cure, la corte spagnola ha posto in evidenza che un operatore come YouTube non può dirsi esercitare un’attività di tipo editoriale che lo attragga nell’ambito dei content provider, non essendo sufficienti elementi quali la classificazione dei contenuti o la previsione di una licenza per lo sfruttamento dei diritti connessi a escludere la natura di mero prestatore di servizi, che beneficia in quanto tale delle esenzioni di responsabilità codificate dalla Direttiva E-Commerce.

Inoltre, il giudice d’appello si è soffermato sulla problematica identificazione del momento in cui si ritiene che il provider acquisisca “conoscenza effettiva” delle attività illecite, presupposto che vale a escludere la possibilità per un operatore di invocare l’esenzione da responsabilità. Al riguardo, la corte è parsa ribadire un orientamento già diffuso in altre pronunce, evidenziando che, sebbene non occorrano specifiche modalità, essendo ogni forma di comunicazione o situazione idonea a integrare il requisito della conoscenza effettiva, è necessario che in ogni caso la comunicazione risulti circostanziata, non potendosi ritenere sussistente una conoscenza effettiva in presenza di segnalazioni generiche o approssimative. Osservazioni interessanti emergono anche dalla giurisprudenza americana, dove spicca il caso Viacom v. YouTube [53]. La Corte distrettuale ha ritenuto che non sussistesse alcuna responsabilità del provider in relazione alle contestate violazioni del diritto d’autore, giacché –secondo la common law- una conoscenza soltanto generica e non specifica circa l’esistenza di copyright infringement esclude ogni addebito in capo al gestore della piattaforma. Soltanto in presenza di una comunicazione circostanziata circa l’esistenza di contenuti illeciti, il provider è obbligato ad attivarsi per procedere alla relativa rimozione.

5. Hosting attivo e hosting passivo: la nuova fisionomia degli hosting provider. – Separata sede merita poi una riflessione sull’interpretazione che la più recente giurisprudenza ha offerto in maniera trasversale a proposito dei presupposti per attivare la responsabilità dei provider, che in via conclusiva definisce l’incertezza dello scenario attuale. Nell’ambito dell’elaborazione delle corti nazionali, senz’altro influenzata dagli approdi della Corte di giustizia, si è infatti registrata la tendenza a enucleare una distinzione interna alla categoria degli hosting provider, delineando un’ideale separazione fra hosting attivo e hosting passivo. Da un lato, l’hosting passivo conserverebbe quelle caratteristiche di neutralità e di imparzialità rispetto ai contenuti che la stessa Corte di giustizia, [54] nel caso Google, ha individuato come condizioni per l’operatività delle esenzioni di responsabilità. Dall’altro, invece l’hosting attivo si allontanerebbe da tali caratteristiche, per avvicinarsi alla figura del gestore di contenuti, condividendone, per tale via, la sorte in termini di responsabilità. Nel caso che aveva originato la pronuncia della Corte di Lussemburgo, Google era stata convenuta in giudizio in Francia dai titolari di segni distintivi che lamentavano come, selezionando parole chiave identiche agli stessi, gli utenti visualizzassero, a fianco dei risultati delle ricerche, dei messaggi pubblicitari relativi a prodotti contraffatti o a imitazioni. Il presupposto necessario affinché il provider possa beneficiare dell’esenzione di responsabilità prevista dalla direttiva E-Commerce è che esso “agisca come un prestatore neutro. Le limitazioni di responsabilità, infatti, si fondano sulla precondizione che il provider esegua un’attività di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, in modo che esso non conosca né controlli le informazioni trasmesse o memorizzate.

Non a caso, il confine del regime di “irresponsabilità” del provider coincide con la conoscenza, da parte di questi, dell’illiceità dei contenuti o delle attività che giungono in rete per suo tramite; conoscenza in corrispondenza logica della quale si attiva l’obbligo, per il provider, di agire al fine di rimuovere contenuti illeciti”. [55] Come però accertare la “non neutralità” di un provider è questione che rimane aperta: la Corte ha escluso, per esempio, che l’incameramento di un corrispettivo per la prestazione di servizi di posizionamento potesse da solo rendere inapplicabile esenzione, così come ha ritenuto insufficiente -per parlare di un controllo- l’astratta (e potenziale) conoscibilità di tutti i dati caricati dagli utenti. L’eventuale “contributo attivo” può essere tuttavia apprezzato da elementi come la promozione di determinati prodotti o servizi, come accade quando il provider assista l’utente nella redazione di un messaggio pubblicitario. La Corte di giustizia ha così cristallizzato i caratteri dell’hosting attivo, senza tuttavia offrire elementi certi che possano condurre a escludere o affermare la responsabilità del provider, in base alla corrispondente assimilazione a un gestore di contenuti. Su questo versante, è stato compito delle corti nazionali, piuttosto, individuare il confine tra hosting attivo e hosting passivo. Gli argomenti che sono serviti alla corti per tracciare il crinale della responsabilità possono essere così riassunti: [56] 1) L’inserimento, tra i termini e le condizioni di servizio, di clausole che potrebbero presupporre l’esercizio di una forma di controllo sulle informazioni fornite dagli utenti. Nell’ambito delle possibili violazioni del diritto d’autore, per esempio, la previsione di una licenza non esclusiva per lo sfruttamento dei contenuti pubblicati dagli utenti su un social network è stata ritenuta condizione sufficiente a qualificare il provider come un hosting attivo; 2) L’attività di organizzazione e selezione delle informazioni fornite dagli utenti consente al provider di massimizzare i propri guadagni. Tra gli altri, l’inserimento di messaggi promozioni associati ai contenuti pubblicati dagli utenti è stato ritenuto generare una responsabilità del provider da intendersi come hosting attivo.

In altri casi, le corti nazionali hanno escluso l’applicabilità delle esenzioni di responsabilità nei confronti di provider al ricorrere di condizioni quali: – la predisposizione di un motore di ricerca che permetta agli utenti di inserire delle parole chiave; – l’indicizzazione e selezione di contenuti audiovisivi e la visualizzazione di “contenuti correlati”; – la previsione di una procedura di rimozione selettiva per la segnalazione di contenuti ritenuti illeciti dagli utenti; – il caricamento effettuato direttamente, da parte del provider, di alcuni contenuti. Risulta chiaro, dall’osservazione di questi trend, come l’obsolescenza del dato normativo, incapace ormai di tradurre in modo coerente la fisionomia degli operatori, costituisca un problema centrale, a fronte del quale gli sforzi delle corti hanno partorito alcuni risultati, apprezzabili sul piano pratico della risoluzione dei casi concreti, ma pur sempre parziali e precari finché non consolidati in un dato legislativo. Questi risultati, tuttavia, potrebbero tracciare la via per una corretta identificazione del perimetro dei soggetti e delle attività su cui ancorare la verifica del pluralismo. La distinzione tra produzione di contenuti e mera prestazione di servizi si atteggia infatti come un possibile criterio di sistema, al quale il legislatore non sembra aver aderito in occasione dell’ampliamento del SIC. Ma che forse dovrebbe rappresentare, nonostante le criticità ancora aperte che sono state descritte, il referente più adeguato per ogni misurazione del livello del pluralismo nel sistema delle comunicazioni.

6. Conclusioni. La domanda iniziale dalla quale questa riflessione ha preso le mosse riguarda la meritevolezza dell’estensione del Sistema integrato delle comunicazioni alla categoria degli Internet service provider come opzione ai fini di tutela del pluralismo. Nessun dubbio può essere avanzato per quanto concerne la rilevanza del ruolo svolto dagli ISP da un punto di vista concorrenziale, mentre appare problematico valutare l’impatto che tale estensione è destinata a produrre in tema di pluralismo, stante la difficile configurazione di un’attività di tipo editoriale. A questo proposito, non si può non ricordare come scopo della norma introdotta dal TUSMAR, istitutiva del divieto di detenere una posizione dominante in un mercato rilevante del SIC, fosse impedire che uno stesso operatore potesse esercitare un controllo su una parte significativa dell’informazione disponibile su tale mercato, minacciando così la garanzia del pluralismo. E ciò a prescindere dall’esistenza o meno di un abuso. Ne dovrebbe derivare che ove non sussista controllo sui contenuti che l’operatore diffonde, nessuna rilevanza possa essere attribuita al provider. In questo senso, l’inclusione degli operatori Internet nell’ambito del SIC sembrerebbe contraria alla logica sottesa alle disposizioni che sono state esaminate. Peraltro, la stessa pretesa di ricondurre gli operatori Internet nell’ambito del SIC potrebbe apparire in contrasto con la stessa disciplina che ne prevede, in via generale, l’esenzione di responsabilità sull’assunto che non vi sia alcun controllo sui contenuti veicolati. Elemento quest’ultimo che renderebbe ingiustificata la considerazione degli ISP ai fini della tutela del pluralismo, che presuppone invece l’esistenza proprio di un controllo editoriale: in tal senso, il legislatore pare aver escluso ope legis la sussistenza di un’attività di gestione dei contenuti. Bisogna tuttavia rendere conto della complessità, non solo apparente, del ruolo che questi soggetti rivestono. In molti casi, infatti, l’attività degli ISP si avvicina effettivamente a quella editoriale. Tuttavia, dire che un hosting opera in modo “attivo”, sottolineatura ricorrente in diverse pronunce delle corti nazionali e non solo, non significa ancora affermare con certezza che si tratti di un soggetto che esercita un’attività editoriale: il discrimine per considerare un’attività come rilevante ai fini del pluralismo rimane legato all’esistenza di un effettivo controllo sui contenuti.

Si è sostenuto, a questo riguardo, che ciò che rileva che è l’informazione venga diffusa “dall’operatore” e non semplicemente “attraverso l’operatore”. Tutti questi rilievi devono però confrontarsi con il fatto che le decisioni giurisprudenziali ricordate non sembrano delineare un modello di responsabilità chiaro: il passaggio decisivo, in altri termini, è verificare se l’assimilazione tra hosting attivo e responsabilità editoriale funzioni, e di conseguenza delineare i criteri per una qualificazione degli ISP in tal senso. In assenza di questi elementi, un’assimilazione “tout court” e una conseguente estensione dell’ambito della responsabilità per la gestione dei contenuti appare rischiosa e forse financo di detrimento all’effettiva tutela del pluralismo: si è forse ampliata eccessivamente la base di calcolo (il denominatore), giacché sembra che soltanto l’editore, vale a dire il soggetto che esercita un’attività di controllo sull’informazione, abbia un ruolo rilevante ai fini della tutela del pluralismo. In questa prospettiva, servizi quali social network, piattaforme di condivisione, aggregatori di news non paiono potersi immediatamente inquadrare nell’ambito di un controllo sui contenuti.

Note

*Scritto destinato anche al prossimo numero monografico di Percorsi Costituzionali

1 Per citare alcuni spunti critici, si vv. P. RIDOLA, Diritti di libertà e costituzionalismo, Giappichelli, Torino, 1997; L. CARLASSARE (a cura di), Il pluralismo radiotelevisivo tra pubblico e privato, Cedam, Padova, 2007; P. CARETTI, Pluralismo informativo e diritto comunitario, in M. CARTABIA (a cura di), I diritti in azione, Il Mulino, Bologna, 2007, 415 ss.; P. CARETTI, La legge n. 112 del 2004 e le esigenze del pluralismo informativo, in Nuove autonomie, 2005, VI, 847 ss.; M. MANETTI, Pluralismo dell’informazione e libertà di scelta, in Rivista AIC, 2012, I, 6 marzo 2012; P. DE SENA, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e legge Gasparri: alcune riflessioni su pluralismo e televisione digitale, in www.forumcostituzionale.it; E. APA, Il nodo di Gordio: informazione televisiva, pluralismo e Costituzione, in Quaderni costituzionali, 2004, II, 335 ss.

2 Su questo tema si v. soprattutto P. COSTANZO, Il fattore tecnologico e le sue conseguenze, in Rassegna Parlamentare, 2012, IV, 811; si v. anche, più in generale, F. GALLO, Democrazia 2.0. La Costituzione, i cittadini e la partecipazione, Lectio magistralis al Festival “Lector in fabula”, Conversano, 15 settembre 2013; L. CARLASSARE, La comunicazione del futuro e i diritti delle persone, Cedam, Padova, 2000; con specifico riferimento a Internet, si vv. G. AZZARITI; Internet e Costituzione, in Politica del diritto, 2011, III, 367; F. AMORETTI-E. GARGIULO, Dall’appartenenza materiale all’appartenenza virtuale? La cittadinanza elettronica fra processi di costituzionalizzazione della rete e dinamiche di esclusione, in Politica del diritto, 2010, III, 353; C. CARUSO, L’individuo nella rete: i diritti della persona al tempo di Internet, www.forumcostituzionale.it, 28 aprile 2013.

3 Così l’art. 3, c. 5-bis, del d.l.. 18 maggio 2012, n. 63, convertito, con modif., nella l. 16 luglio 2012, n. 103: “All’articolo 43, comma 10, del testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, di cui al decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, dopo le parole: “dall’editoria elettronica e annuaristica anche per il tramite di internet” sono inserite le seguenti: “da pubblicità on line e sulle diverse piattaforme anche in forma diretta, incluse le risorse raccolte da motori di ricerca, da piattaforme sociali e di condivisione”.

4 Si vv., per citare alcuni scritti sul tema, F. DONATI, Il pluralismo informativo nello scenario della convergenza, in G. MORBIDELLI-F. DONATI (a cura di), Comunicazioni: verso il diritto della convergenza, 71 ss., Torino, 2003 e F. DONATI, Pluralismo e concorrenza nel sistema dell’informazione (considerazioni a margine del caso Seat- Telemontecarlo), in Il diritto delle radiodiffusioni e delle telecomunicazioni, 23 ss., 2001.

5 Sulla distinzione tra profilo attivo e passivo della libertà di informazione, con specifico riferimento al contesto italiano, si v. R. ZACCARIA-A. VALASTRO, Diritto dell’informazione e della comunicazione, CEDAM, Padova, 2010, p. 17.

6 Ibidem.

7 R. MASTROIANNI, La direttiva sui servizi di media audiovisivi e la sua attuazione nell’ordinamento italiano, Torino, 2011, p. 31.

8 Corte eur., 17 giugno 2008, n. 32283/03, Meltex v. Armenia; 16 ottobre 1986, n. 10746/84, Verein Alternatives Lokalradio Bern and Verein Radio Dreyeckland Basel v. Switzerland; 11 ottobre 2007, n. 14134/02, Glas Nadezhda v. Bulgaria; 23 settembre 1994, n. 15890/89, Jersild v. Denmark; 27 aprile 1995, n. 15773/89 e 15774/89, Piermont v. France.

9 MASTROIANNI, cit., p. 32.

10 “1. L’Unione contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune. 2. L’azione dell’Unione è intesa ad incoraggiare la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, ad appoggiare e ad integrare l’azione di questi ultimi nei seguenti settori: – miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei, – conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea, – scambi culturali non commerciali, – creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo. 3. L’Unione e gli Stati membri favoriscono la cooperazione con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali competenti in materia di cultura, in particolare con il Consiglio d’Europa. 4. L’Unione tiene conto degli aspetti culturali nell’azione che svolge a norma di altre disposizioni dei trattati, in particolare ai fini di rispettare e promuovere la diversità delle sue culture. 5. Per contribuire alla realizzazione degli obiettivi previsti dal presente articolo: – il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato delle regioni, adottano azioni di incentivazione, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri; – il Consiglio, su proposta della Commissione, adotta raccomandazioni”.

11 K. BANIA, EU soft-law initiatives designed to protect media pluralism: Effective instruments or unnecessary public expenditure?, in www.medialaws.eu,

12 marzo 2013. 12 Si v. a questo proposito anche il policy report European Union Competencies in Respect of Media Pluralism and Media Freedom, Centre for Media Pluralism and Media Freedom, gennaio 2013 13 Ancora ZACCARIA-VALASTRO, cit., p. 16, sottolineano come “i fattori che hanno imposto una lettura evolutiva della libertà di manifestazione del pensiero sono stati diversi: l’evoluzione tecnologica, l’affermazione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa e, più in generale, lo sviluppo della società e dei sistemi politici”.

14 Ibidem, p. 29.

15 Corte cost., sent. 105/1972. Si v. anche Corte cost., sent. 112/1993.

16 Corte cost., sent. 94/1977. Sul punto, si v. ancora ZACCARIA-VALASTRO, cit., p. 16, che illustrano come nel percorso interpretativo della Consulta, oltre all’interesse generale all’informazione “correlato all’esistenza di una pluralità di fonte informative”, che costituisce un risvolto della libertà di informazione, siano stati individuati dei “veri e propri diritti all’informazione”.

17 Corte cost., sent. 225/1974. Si vv. anche le successive sentt. 826/1988, 348/1990, 112/1993, 420/1994 e 466/2002. Su quest’ultima, si v. il commento di A. PACE, Il discutibile avvio del digitale terrestre tra la sent. n. 466 del 2002 della Corte Costituzionale e il rinvio ex art. 74 Cost. del presidente della Repubblica, in Giurisprudenza costituzionale , 2004, II, 1369 ss. e quello di E. APA, Incostituzionalità continua: il duopolio televisivo riceve una nuova condanna, ma guadagna tempo, in Foro italiano, 2003, III, 711 ss.

18 Dice, in particolare, la Consulta nella pronuncia 826/1988: “Compito specifico del servizio pubblico radiotelevisivo é di dar voce -attraverso un’informazione completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata nelle sue diverse forme di espressione – a tutte, o al maggior numero possibile di opinioni, tendenze, correnti di pensiero politiche, sociali e culturali presenti nella società, onde agevolare la partecipazione dei cittadini allo sviluppo sociale e culturale del Paese, secondo i canoni di pluralismo interno. Ed ovviamente spetta al legislatore di provvedere a che il servizio pubblico disponga delle frequenze e delle fonti di finanziamento atte a consentirgli di assolvere i propri compiti. Per quanto riguarda l’emittenza radiotelevisiva privata si tratta di comporre il diritto all’informazione dei cittadini e le altre esigenze di rilievo costituzionale in materia con le libertà assicurate alle imprese principalmente dall’art. 21, oltre che dall’art. 41 Cost., in ragione delle quali il pluralismo interno e l’apertura alle varie voci presenti nella società incontra sicuramente dei limiti. Di qui la necessità di garantire, per l’emittenza privata, il massimo di pluralismo esterno, onde soddisfare, attraverso una pluralità di voci concorrenti, il diritto del cittadino all’informazione”.

19 Corte cost., sent. 155/2002.

20 Giova precisare che già nelle sentt. 826/1988, 420/1994 e 466/2002 la Corte costituzionale si era soffermata sulla necessità di una tutela effettiva del pluralismo, che va difeso dal rischio dell’insorgere di posizioni dominanti o comunque preminenti, tali da comprometterne la portata. Ancora ZACCARIA-VALASTRO, cit., p. 52.

21 Corte cost., sent. 420/1994.

22 Per alcuni rilievi critici sulla Legge Maccanico, si v. V. ZENO-ZENCOVICH, Il sistema integrato delle telecomunicazioni: spunti sistematici e critici sulla legge 31 luglio 1997, n. 249, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 1997, IV-V, 735 ss.

23 Art. 2, d.lgs. 177/2005.

24 Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, Procedimento per l’individuazione dei mercati rilevanti nell’ambito del sistema integrato delle comunicazioni, Allegato A alla Delibera n. 555/10/CONS, p. 200.

25 Ibidem.

26 Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Segnalazione in merito alla tutela dei contenuti editoriali su internet, disponibile all’url http://www.agcm.it/trasp-statistiche/doc_download/3702-s1806.html .

27 Altresì, la nozione, come definita nell’art. 2, lett. a), n. 1, si estende alla “comunicazione commerciale audiovisiva”.

28 Specifica ulteriormente la norma: “Per siffatto servizio di media audiovisivo si intende o la radiodiffusione televisiva, come definita alla lettera i) del presente articolo e, in particolare, la televisione analogica e digitale, la trasmissione continua in diretta quale il live streaming, la trasmissione televisiva su Internet quale il webcasting e il video quasi su domanda quale il near video on demand, o un servizio di media audiovisivo a richiesta, come definito dalla lettera m) del presente articolo”.

29 E cioè i ricavi derivanti “dal finanziamento del servizio pubblico radiotelevisivo al netto dei diritti dell’erario, da pubblicità nazionale e locale anche in forma diretta, da televendite, da sponsorizzazioni, da attività di diffusione del prodotto realizzata al punto vendita con esclusione di azioni sui prezzi, da convenzioni con soggetti pubblici a carattere continuativo e da provvidenze pubbliche erogate direttamente ai soggetti esercenti le attività indicate all’articolo 2, comma 1, lettera s) da offerte televisive a pagamento, dagli abbonamenti e dalla vendita di quotidiani e periodici inclusi i prodotti librari e fonografici commercializzati in allegato, nonché dalle agenzie di stampa a carattere nazionale, dall’editoria elettronica e annuaristica anche per il tramite di internet, da pubblicità on linee sulle diverse piattaforme anche in forma diretta, incluse le risorse raccolte da motori di ricerca, da piattaforme sociali e di condivisione, e dalla utilizzazione delle opere cinematografiche nelle diverse forme di fruizione del pubblico”.

30 Vale a dire, ai sensi dell’art. 1, c. 6, lett. a), n. 5, i “soggetti destinatari di concessione ovvero di autorizzazione in base alla vigente normativa da parte dell’Autorità o delle amministrazioni competenti, le imprese concessionarie di pubblicità da trasmettere mediante impianti radiofonici o televisivi o da diffondere su giornali quotidiani o periodici, le imprese di produzione e distribuzione dei programmi radiofonici e televisivi, nonché le imprese editrici di giornali quotidiani, di periodici o riviste e le agenzie di stampa di carattere nazionale, nonché le imprese fornitrici di servizi telematici e di telecomunicazioni ivi compresa l’editoria elettronica e digitale; nel registro sono altresì censite le infrastrutture di diffusione operanti nel territorio nazionale”.

31 T.E. FROSINI, Il diritto costituzionale di accesso a Internet, in Rivista AIC, I, 2011; V. ZENO-ZENCOVICH, L’accesso alla rete come diritto fondamentale, Relazione al convegno “Il diritto dell’informazione tra regole antiche e nuovi media”, seminario di studi in memoria di Corso Bovio, Milano, 20 maggio 2010; S. RODOTÀ, Una Costituzione per internet?, in Politica del diritto, 2010, III, 337 ss.; P. COSTANZO, Miti e realtà dell’accesso ad Internet (una prospettiva costituzionalistica), in P. CARETTI (a cura di), L’informazione: il percorso di una libertà, Volume II, Passigli Editore, Firenze, 2012, 9 ss.; G. DE MINICO, Uguaglianza e accesso a Internet, in Forum di Quaderni Costituzionali, 6 marzo 2013; P. PASSAGLIA, Diritto di accesso ad Internet e giustizia costituzionale. Una (preliminare) indagine comparata), in M. PETRANGELO (a cura di), Il diritto di accesso ad internet, Atti della tavola rotonda svolta nell’ambito dell’IGF Italia 2010 – Roma, 30 Novembre 2010, ESI, Napoli, 2011, 59 ss. P. TANZARELLA, Accesso a internet: verso un nuovo diritto sociale?, in www.gruppodipisa.it, giugno 2012. Senza dimenticare la lungimirante e sempre attuale riflessione opera di V. FROSINI, L’orizzonte giuridico dell’Internet, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2000, II, 271 ss. In giurisprudenza, l’emersione del diritto di accesso alla rete è testimoniata soprattutto dalla pronuncia del Conseil constitutionnel del 10 giugno 2009, n. 2009-580 DC, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della originaria versione della Legge Hadopi, che prevedeva la possibilità di sanzionare gli utenti che avessero reiteratamente commesso violazioni del diritto d’autore mediante la rete Internet con il distacco della connessione, senza affidare il controllo del relativo procedimento all’autorità giurisdizionale, la cui traduzione in lingua italiana è rinvenibile in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2009, III, 524 e ss., con nota di G. VOTANO, Internet fra diritto d’autore e libertà di comunicazione: il modello francese, 533 ss. Sullo stessa pronuncia si registrano altresì i commenti P. PASSAGLIA, L’accesso a Internet è un diritto (il Conseil Constitutionnel francese dichiara l’incostituzionalità di parte della c.d. “legge anti file-sharing”), in Il foro italiano, 2009, IV, 473 ss. ed E. BERTOLINI, La lotta al file sharing illegale e la “dottrina Sarkozy” nel quadro comparato: quali prospettive per libertà di espressione e privacy nella rete globale?, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2010, I, 74 ss. Si veda inoltre la sentenza della Sala Constitucional della Costa Rica del 30 luglio 2010, n. 12790.

32 Si vv. in tal senso le osservazioni di P. VAN EECKE, Online Service Providers and Liability: A Plea for a Balanced Approach, in Common Market Law Review, 48, 1455 ss., 2011.

33 VAN EECKE, cit., pp. 1460-1461.

34 Tribunale di Milano, ord. 25 marzo 2013.

 

35 Precisa il giudice che “le associazioni, tuttora visibili su Autocomplete e Ricerche Correlate, ai nomi dei ricorrenti […] dei termini setta e plagio di cui gli stessi si dolgono non costituiscono una frase di senso compiuto né una manifestazione di pensiero, né dunque ‘quello che Google pensa’, né un pensiero, né un pensiero attribuibile a Google, ma esclusivamente il risultato delle ricerche più popolari effettuate dagli utenti, ovvero la visualizzazione dei termini ricorrenti nelle pagine web incluse tra i risultati di ricerca di una determinata query, entrambi resi disponibili agli utenti come strumenti di aiuto alla ricerca”.

36 Tribunale di Pinerolo, ord. 30 aprile 2012.

37 Si vv., sul caso in parola, G.M. RICCIO, Google: sulle ricerche automatiche esclusa la diffamazione, in Diritto24, www.diritto24ilsole24ore.com, 4 maggio 2012; A. PIROZZOLI, La responsabilità dell’Internet service provider. Il nuovo orientamento giurisprudenziale nell’ultimo caso Google, in Rivista AIC, 2012, III, 25 settembre 2012.

38 Tribunale di Milano, ord. 21/25 gennaio 2011 e ord. 24 marzo 2011.

39 Secondo il Tribunale, dal momento che “l’associazione tra il nome del ricorrente e le parole ‘truffa’ e ‘truffatore’ è opera del software messo a punto appositamente e adottato da Google per ottimizzare l’accesso alla sua banca dati operando con le modalità […] volutamente individuate e prescelte per consentirne l’operatività allo scopo voluto […] non può che conseguirne la diretta addebitabilità alla società, a titolo di responsabilità extracontrattuale, degli eventuali effetti negativi che l’applicazione di tale sistema può determinare”.

40 Corte d’appello di Parigi, 14 dicembre 2011.

41 Tribunale di Roma, ord. 20 marzo 2011 e ord. 16 giugno 2011.

42 Tribunale di Roma, ord. 16 dicembre 2009 e ord. 11 febbraio 2010.

43 Tribunale di Milano, sent. 20 gennaio 2011, n. 6096 (R.T.I. v. I.O.L.) e sent. 19 maggio 2011, n. 8748 (R.T.I. v. Yahoo! Italia e Yahoo! Inc.).

44 In particolare, nella pronuncia del 20 gennaio 2011, evocando il considerando 42 della Direttiva 200/31/CE, il giudice ha richiamato come “le deroghe alla responsabilità ivi stabilite ‘riguardano esclusivamente il caso in cui l’attività di prestatore di servizi della società dell’informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell’informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate”.

45 Nel caso Yahoo!, invece, il Tribunale è parso attribuire marginale rilevanza all’associazione tra i contenuti immessi dagli utenti e messaggi pubblicitari oggetto di sfruttamento commerciale. Parimenti irrilevante è ai fini della posizione del prestatore rispetto ai contenuti forniti dagli utenti.

46 La precisazione non è peregrina, giacchè nel caso che ha interessato Italia On Line risultava che alcune delle sequenze di cui RTI contestava la pubblicazione sul portale fossero in realtà state oggetto di caricamento proprio da parte di soggetti riconducibili al provider, così determinando, da un punto di vista sostanziale, una vera e propria gestione di contenuti.

47 Cassazione penale, 29 settembre 2009, n. 49437.

48 Tribunale Roma, ord. 17 agosto 2011.

49 Tribunale di Roma, ord. 20 ottobre 2011.

50 Cass. pen., sent. 3 febbraio 2014, n. 3672.

51 Tribunale di Parigi, 29 maggio 2012, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2012, IV, 960 ss., con nota di P. SAMMARCO, Il ruolo di YouTube tra intermediario del commercio elettronico e fornitore di servizi di media audiovisivi, 965 ss.

52 Audiencia Provincial Civil de Madrid, sentenza 31 gennaio 2014, n. 11. Si v. il commento di M. BASSINI, News on ISPs liability from Spain: YouTube not responsible for infringements of copyrighted materials. The second chapter of Telecinco v YouTube, disponibile su www.medialaws.eu.

53 Viacom Int’l Inc., et al., v. YouTube, Inc. et al.

54 Corte di giustizia, Grande sezione, 23 marzo 2010, cause riunite C-236/08, C-237/08 e C-238/08, Google France SARL, Google Inc. c. Louis Vuitton Malletier SA, Google France SARL c.Viaticum SA, Luteciel SARL, Google France SARL c. Centre national de recherche en relations humaines (CNRRH) SARL, Pierre-Alexis Thonet, Bruno Raboin, Tiger SARL.

55 M. BASSINI, Commercio elettronico e tutela dei segni distintivi. Responsabilità degli intermediari e trend giurisprudenziali, in A.M. MAZZARO-O. POLLICINO (a cura di), Tutela del copyright e della privacy sul web. Quid iuris?, pp. 62-63, Aracne, 2012.

56 Su questi aspetti, si v. più diffusamente O. POLLICINO-E. APA, Modeling the Liability of Internet service providers: Google vs. Vivi Down, A Constitutional Perspective, Egea, Milano, 2013.

 
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