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Perchè serve un digital deal europeo. Intervento del prof. Avv. Oreste Pollicino

La stagione della pandemia non sembra esaurirsi. Al contrario, il virus ha ritrovato vigore in autunno, e con esso, si accresce ulteriormente il processo, già avviato in primavera e consolidatosi in estate, di espansione della nostra presenza digitale.

Il perdurare, al di là delle (forse ottimistiche) previsioni relative al retrocedere della pandemia, del processo appena descritto, comporta, a mio avviso, la necessità di prendere coscienza di una trasformazione, non irreversibile, ma con effetti permanenti di lungo periodo.

Si fa in particolare riferimento al ruolo delle piattaforme digitali. Non vi è dubbio che anche nella stagione pre-pandemica i grandi colossi tecnologici fornissero servizi assai importanti, come quelli di condivisione di informazione, di intrattenimento e di aggregazione (virtuale).

Da marzo scorso, però, il ruolo delle piattaforme digitali, bisogna prenderne atto, si è modificato. Vale a dire che, nella impossibilità, totale o parziale, di usufruire di servizi essenziali (come istruzione, partecipazione lavorativa, svolgimento dei processi) secondo i canali tradizionali che, incompatibili con il distanziamento, sono poco (o per nulla utilizzabili), tali servizi vengono erogati digitalmente. Il che significa, vista la colpevole assenza, di una piattaforma pubblica di carattere europeo, che questi servizi di rilevanza pubblica sono forniti dai grandi giganti del web con una sede principale non in Europa.  Soggetti non pubblici, che però sono, a tutti gli effetti, non solo degli attori economici, ma anche dei veri e propri poteri privati digitali che competono con i poteri statali ed europei.

Il nuovo modello di business rilevante potrebbe essere definito digital utilities.

È un problema? No, se questa trasformazione viene compresa appieno e se ne attribuisce la giusta importanza anche sotto il profilo giuridico.

Chi, nei settori tradizionali, come per esempio gas ed elettricità, fornisce servizi pubblici essenziali o comunque di pubblica utilità è soggetto, almeno in Europa, ad una regolamentazione assai incisiva, con vincoli molti stringenti. Disciplina che, ovviamente, al momento, non si applica alle grandi piattaforme digitali.

Potranno queste ultime sfuggire alla attrazione fatale al modello di regolazione tipico dei tradizionali servizi di pubblica utilità?. Non è facile, forse l’unico modo è offrire all’individuo/utente un new digital deal, di cui gli ingredienti non possono che essere quella della trasparenza nelle procedure di moderazione di contenuti, riconoscimento dei diritti di accesso, di traduzione e di spiegazione connessi al funzionamento dell’algoritmo.

Sono questi i diritti irrinunciabili all’avvento del nuovo capitalismo digitale,  il cui combustibile è l’enorme numero di dati che caratterizzano il serbatoio della società dell’informazione. La digitalizzazione di tutto il digitalizzabile è, e sarà sempre di più nella stagione post pandemica, il mezzo per il capitalismo del Ventunesimo secolo di ottenere nuove riduzioni dei costi e riavvicinamento virtuali delle distanze.

Le grandi piattaforme informatiche non hanno però troppo tempo per mettere appunto questo nuovo digital deal al fine di alimentare fiducia e trasparenza, al momento assai esigue. A dicembre sarà pubblicato dall’Unione europea il Digital Service Act, che potrebbe andare proprio nella direzione, realizzando il peggior incubo delle nuove digital utilities, di quella parziale convergenza tra servizi di utilità analogici e digitali.

 

Di Prof. Avv. Oreste Pollicino.

 

Articolo pubblicato sul Corriere della sera il 6 novembre 2020

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