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Concorrenza nell’Era Digitale. Il resoconto del seminario organizzato dall’Istituto per la Cultura dell’Innovazione

L’incontro, organizzato a Roma dall’Istituto per la Cultura dell’Innovazione, ha messo al centro della discussione le questioni esaminate dalla DG Competition (Commissione Europea) in tema di definizione della politica della concorrenza nell’era della digitalizzazione. La continua e rapida evoluzione delle tecnologie ha infatti determinato cambiamenti enormi nel mercato, che sollevano inter alia quesiti in merito alla ottimale applicazione della normativa antitrust ed alle sfide che il digitale pone per il diritto della concorrenza – dall’accertamento dell’esistenza del potere di mercato, alla necessità di promuovere l’innovazione digitale ed il benessere dei consumatori.

VALERIO TORTI, RESEARCH FELLOW ISTITUTO PER LA CULTURA DELL’INNOVAZIONE, ha introdotto il dibattito evidenziando alcuni aspetti del rapporto della DG Competition. «Il report prende in considerazione la politica della concorrenza e la sua evoluzione nei mercati digitali. Gli autori sembrano suggerire che le autorità in futuro dovranno avvalersi in misura crescente della consulenza non solo di giuristi ed economisti, ma anche di professionisti nel campo dell’informatica e dell’ingegneria, al fine di comprendere a fondo le dinamiche che caratterizzano i mercati nella data economy».

«Il report viene presentato dagli autori come neutrale, senza particolari sbilanciamenti né verso un over-enforcement né verso un under-enforcement della normativa antitrust. Tuttavia, alcuni spunti potrebbero forse far pensare che gli autori sostengano in realtà un approccio più interventista, soprattutto in relazione a quelle fattispecie caratterizzate da incertezza – in cui magari non è ben chiara la definizione dei mercati, se vi sia o meno market power, oppure non è ben chiara l’esistenza o la quantificazione del danno ai consumatori».

«Il report si snoda attraverso alcune macrotematiche: dal citato approccio delle autorità antitrust, al ruolo delle piattaforme ed all’importanza dell’accesso ai dati, sino alle problematiche causate dall’acquisizione di piccole start-up del digitale da parte di piattaforme dominanti. In relazione ai dati, ad esempio, gli autori correttamente distinguono quei casi in cui un rifiuto di concedere l’accesso potrebbe sfociare in un abuso di posizione dominante, dai casi in cui di abuso non si dovrebbe parlare a fronte della possibilità di duplicare i dati stessi o di ottenerli attraverso molteplici canali».

«In conclusione, ci si potrebbe chiedere se il report presentato dai tre accademici sia effettivamente bilanciato, ossia se prenda in considerazione in maniera ponderata sia gli interessi di consumatori e piccole imprese da un lato, che gli obiettivi delle grandi piattaforme che dominano il panorama digitale dall’altro. O se invece vada interpretato come un rapporto che demonizza in un certo senso gli ecosistemi digitali, considerati da alcuni come buchi neri da cui il consumatore ha difficoltà ad uscire. Non va dimenticato che anche le grandi imprese protagoniste della data economy necessitano di incentivi concreti al fine di continuare ad investire nell’innovazione e nello sviluppo di prodotti e servizi di qualità, e dunque contribuire in modo rapido ed efficace all’incremento del consumer welfare».

ANDREA PEZZOLI, DIRETTORE GENERALE DG CONCORRENZA PRESSO l’AGCM, ritiene che il rapporto sia ben strutturato. «Ben fatte le riflessioni sulle nuove forme di potere di mercato, su come approcciare la definizione di mercato e l’accertamento del potere di mercato in un contesto digitale. Piuttosto interessanti anche le riflessioni sulla necessità di trovare un nuovo equilibrio tra under e over-enforcement alla luce delle caratteristiche dell’economia digitale. Il trade-off tra rischi di falsi positivi, e soprattutto il rischio di scoraggiare il processo innovativo, da un lato, e di un intervento inefficace, dall’altro, va valutato in una nuova prospettiva».

«Il Rapporto sembra sottolineare che nel digitale i rischi dell’under-enforcement potrebbero essere più elevati che nei settori tradizionali. In linea di principio il danno che può provocare un intervento inadeguato può essere particolarmente alto: il rischio che si consolidi una struttura di mercato o persino un quasi monopolio non più contestabile».

«Nell’affrontare la questione delle nuove forme di potere di mercato nell’economia digitale è evidente che i Big Data (meglio, la capacità di acquisire, elaborare e trattare rapidamente grandi volumi di dati) possono svolgere un ruolo importante. I dati possono essere visti come una sorta di “colla” che consente alle grandi piattaforme di condizionare/minacciare più mercati (e gli attuali incumbent) contemporaneamente. Persino quei mercati dove le grandi piattaforme non sono (ancora) presenti. Con il paradosso che qualcuno inizia a parlare di posizioni dominanti “fuori dal mercato”. L’economia digitale da un lato esalta il ruolo dei nuovi entranti innovatori in grado di “distruggere” l’esistente (seppur molto aggressiva, sempre concorrenza potenziale), dall’altro attribuisce una nuova centralità al potere conglomerale.»

«La definizione del mercato si scolora non poco. Il rischio è che con lo sbiadirsi dei confini dei mercati rilevanti, il concetto di potere di mercato si trasformi in potere economico e potere tout court, e un coacervo di questioni, non facili da districare, si intreccino: privacy, fairness, diritti fondamentali, democrazia. Le nuove forme di potere di mercato e la stessa definizione dei mercati possono risentire anche – e questo c’è solo in parte nel rapporto – della diffusione degli algoritmi di prezzo e dalla capacità di profilazione».

«Le capacità di profilazione portate all’estremo fanno sì che le caratteristiche dei consumatori siano note con estrema precisione alle imprese. Questo fenomeno può essere un bene per i consumatori – e spesso lo è –, ma può anche contribuire al rafforzamento di posizioni di potere, per vie apparentemente nuove. Quello che una volta era solo il segmento di un mercato più ampio, grazie alla capacità di discriminare le categorie di consumatori in profondità può diventare l’ambito più piccolo nel quale è possibile esercitare il potere di mercato: la capacità di profilare, in astratto, può consentire di aumentare prezzi per categorie di consumatori che prima non erano distinguibili dal resto. In questa prospettiva appare condivisibile l’enfasi che il Rapporto pone sul controllo delle concentrazioni. L’economia digitale è una buona scusa per tornare ad occuparci di struttura: il controllo delle concentrazioni è uno strumento importante per poter far sì che quello che diventa sempre più possibile grazie all’economia digitale, all’uso degli algoritmi, alle profilazioni spinte all’estremo, non si traduca in situazioni di quasi monopolio o in strutture oligopolistiche pro-collusive».

«Più delicata è invece la questione dell’under-enforcement relativamente alle condotte unilaterali. I rapporti tra concorrenza, privacy e consumer welfare non sono univoci».

«La qualità del servizio, il consumer welfare può migliorare a fronte di una riduzione della privacy. Ma mentre aumenta il consumer welfare dei singoli, si produce anche una significativa riduzione del social welfare. Tutti noi possiamo migliorare il consumer welfare grazie alla riduzione della privacy. Ma nel complesso questa riduzione della privacy può costituire un problema sotto altri profili, non di natura commerciale: rischi per le democrazie, per la stabilità dei governi. In altri termini, il confronto concorrenziale basato sui dati può portare alla produzione di un’esternalità negativa anche molto seria, che come suggerisce Paul Romer, premio Nobel per l’Economia nel 2018, potrebbe essere affrontata anche con lo strumento fiscale, come è prassi, ad esempio per l’inquinamento».

«Due approcci appaiono piuttosto suggestivi: il primo, mantiene solido lo standard del consumer welfare, utile sotto il profilo della certezza giuridica, ma lo arricchisce con valutazioni che non si fermano all’efficienza, ai prezzi e alle quantità, integrandolo con considerazioni sulla qualità, l’innovazione, l’equità (la fairness). Il secondo prende atto della non univocità dei rapporti tra concorrenza, privacy e consumer welfare e interviene con lo strumento fiscale sulle esternalità negative prodotte da tali rapporti. Mutato il contesto all’interno del quale si svolge il confronto concorrenziale, le valutazioni antitrust vengono alleggerite, almeno in parte, dall’intreccio con la privacy e gli altri diritti meritevoli di tutela. Un’ulteriore conferma di come la rivoluzione digitale richieda alla Politica della concorrenza di sfruttare a pieno le complementarietà con le altre politiche pubbliche: la tutela della privacy, la tutela del consumatore, la regolazione (sugli eventuali rischi legati alla diffusione degli algoritmi di prezzo pro-collusivi in linea di principio non vanno esclusi interventi ex-ante), politiche attive del lavoro e di welfare, persino la politica fiscale».

 ANTONIO NICITA, COMMISSARIO AGCOM
«Nel trentesimo anno del web si è assistito ad una forte accelerazione del dibattito mondiale sulla domanda di una qualche forma di regolazione per le grandi piattaforme digitali. Sul banco degli imputati – dove persino l’inventore del web, Tim Berners-Lee, le ha collocate – ci sono le Big Tech in relazione ai Big Data, alla capacità cioè di generare, attraverso la raccolta di dati e la profilazione algoritmica, due Big Risk a livello globale: (1) forme non contendibili – o quantomeno oligopolistiche – nei mercati d’intermediazione delle piattaforme globali; (2) segmentazioni nel ‘mercato delle idee’, con una forte riduzione del pluralismo online e una crescente esposizione degli utenti del web, e dei social in particolare, a strategie di disinformazione e malinformazione».

«I due Big Risk sono, in realtà, interdipendenti, dal momento che i meccanismi che sembrano generarli sono i medesimi: estrazione e profilazione del dato; (auto)selezione algoritmica di domanda e offerta di informazioni online; effetti di rete; valorizzazione del tempo di attenzione, riduzione dei costi di search. In particolare, la profilazione algoritmica presenta un pervasivo trade-off: se, nel campo delle scelte commerciali e di consumo online, la profilazione algoritmica è efficiente in relazione alla sua capacità di filtrare ed eliminare le alternative irrilevanti, quando passiamo al pluralismo informativo quella efficienza si traduce in pericolo».

«Per comprendere la rilevanza del Web e delle piattaforme digitali nel design dello spazio informativo occorre capire come la profilazione algoritmica contribuisca a selezionare contenuti determinanti per la formazione dell’opinione pubblica e per l’agenda setting politica. La diffusione delle piattaforme online e, in particolare dei social network (non a caso ricompresi nel concetto ampio di social media), ha comportato il passaggio da un modello di integrazione verticale delle diverse fasi della catena del valore, tipica dell’editoria offline al cui interno l’editore esercitava un controllo (diretto o indiretto), ad una separazione dei diversi stadi del processo produttivo».

«Oggi cambiano le informazioni e l’accesso alle informazioni, consentendo agli stessi utenti di partecipare alla produzione e riproduzione di contenuti informativi e generando una contrazione dello spazio di esercizio del ruolo di intermediario svolto dall’editore tradizionale di giornali, radio e Tv. La nostra dieta informativa quotidiana è ormai caratterizzata da un crescente fenomeno di crossmedialità, cioè di uso congiunto di mezzi d’informazione tradizionali e di varie modalità offerte dal Web, soprattutto attraverso motori di ricerca come Google e Yahoo! e social network come Facebook e Twitter».

«In considerazione della crescente diffusione di dispositivi tra il pubblico e del moltiplicarsi delle occasioni di fruizione, cambiano i modelli di consumo dei media e dell’informazione. Dal lato dell’offerta di informazione, la maggiore disponibilità di fonti informative aumenta il cosiddetto pluralismo esterno e amplifica la libertà di informarsi, di confrontare fonti, di formarsi un’opinione autonoma. La stessa offerta è arricchita dai contenuti auto-prodotti, dalle ricostruzioni dirette di testimoni, da notizie e informazioni che non provengono soltanto da fonti giornalistiche ma da un universo poliedrico e variegato. Come ha scritto Sunstein, ciascuno può costruirsi online il proprio «palinsesto», il daily me quotidiano. Al tempo stesso, questa ritrovata autonomia produce una qualità complessiva che è il frutto esclusivo delle nostre attitudini. Si comprende allora perché un simile contesto sia naturalmente fertile e predisposto alla diffusione di strategie di disinformazione basate su notizie false e messaggi polarizzanti. Il superamento della vecchia Tv, del palinsesto per tutti, ci ha fin qui portato maggiore libertà ma, paradossalmente, minore pluralismo e maggiore polarizzazione».

«Un esempio è il caso dell’anticipatory shipping, un business model registrato da Amazon in cui sostanzialmente non sono io che scelgo cosa voglio e Amazon me lo porta, ma è Amazon che cerca di capire cosa potrei scegliere e me lo porta a casa. Non devo decidere cosa comprare ma cosa non comprare, cioè cosa restituire. Gli algoritmi sono efficienti se, grazie a ciò che imparano dall’elaborazione dei dati profilati, riescono a massimizzare l’incontro (matching) tra domanda e offerta di informazioni, riducendo varianza e rumore. Il problema è che ciò che rende efficiente l’algoritmo di una piattaforma digitale, nello scambio di beni e servizi (e che rende il dato profilato un valore per gli inserzionisti pubblicitari) è esattamente ciò che mina la natura reciproca della libertà di espressione e il pluralismo. La natura dell’algoritmo è, infatti, proprio quella di eliminare, dalla nostra selezione del mondo, ciò che non ci somiglia e ciò che non ci piace. Efficienza economica e pluralismo sembrano allora antitetici per il lavoro delle piattaforme matchmaker: una punta a soddisfare al massimo le nostre preferenze, l’altro punta a fornirci una rappresentazione del mondo plurale e quindi (anche) diversa dalla nostra. Il pluralismo non è un tema di matching perfetto tra domanda e offerta. Anzi, con ogni probabilità è il suo contrario: il pluralismo è l’irrompere, nel comodo e tiepido conformismo, dell’indesiderato e dell’inatteso. Se vogliamo conciliare libertà d’espressione e pluralismo dobbiamo allora superare la rivendicazione di quella libertà intesa esclusivamente come diritto di chi parla e non anche di chi ascolta. Perché quella libertà di manifestare il proprio pensiero non ha a che fare con la solitudine: nessun uomo è un’isola, se è un uomo che parla. Peraltro, numerosi sondaggi dimostrano che il cittadino-utente non è consapevole di essere oggetto di selezione nel ricevere o nell’inviare informazioni».

«La libertà di espressione deve essere anche la libertà di ricevere informazioni in modo indiscriminato e aperto. Nell’agorà virtuale ogni soggetto deve essere posto nella condizione di sapere se esiste un filtro tra ciò che “manda” e ciò che “arriva”, il perché esiste questo filtro, se lo voglio accettare o se lo voglio modificare. Mentre l’algoritmo funziona benissimo negli acquisti, per esempio, allorché toglie tutte le alternative irrilevanti, quando si parla di scambio di informazioni, di opinioni, di visione del mondo, l’algoritmo pluralista dovrebbe fare il contrario: dovrebbe spiegare perché riceviamo quelle informazioni e non altre. I social sono diventati i gatekeeper dell’informazione».

«L’esperimento argentino su Facebook della World Wide Web Foundation mostra che, attraverso la profilazione algoritmica, il public domain, il luogo pubblico online nel quale viaggiano notizie destinate, almeno in potenza, a tutti, indistintamente, può trasformarsi da spazio aperto e indistinto ad ambito distinto e chiuso di «corrispondenze»: uno smistamento a indirizzi specifici, opportunamente selezionati. L’algoritmo seleziona, nel mare della complessità del sovraccarico informativo, una mappa di rotte precise, impedendoci di conoscere ed esplorare altri mondi. E le rotte definiscono regole predeterminate di navigazione: c’è il like ma non c’è il “dislike”, c’è un numero massimo di caratteri, c’è una selezione e un ranking di notizie e di amici. In altri termini, l’onda plasmata dal vento dell’algoritmo farà sì che il messaggio in bottiglia gettato nel mare del Web arriverà ad alcuni e non ad altri. E questo crea un serio problema per la libertà d’espressione e per il pluralismo. Così, quando discutiamo di regole, di limiti, di condizioni non basta chiedersi se essi intacchino la libertà positiva di chi parla. Bisogna anche valutarne l’impatto sulla libertà negativa di chi ascolta e sul loro reciproco bilanciamento».

GIUSEPPE COLANGELO, PROFESSORE DI DIRITTO DELL’ECONOMIA, UNIVERSITÀ DELLA BASILICATA
«Il report offre tre spunti che trovo positivi più uno discutibile, nel senso che è problematico di per sé. Primo punto positivo: una definizione del mercato rilevante che non sia legata ad una dicotomia stretta della tipologia di piattaforma. Alcuni anni fa è stata teorizzata la possibilità di definire, all’interno delle piattaforme a due o più versanti, una distinzione tra piattaforme di transazione (cioè che consentono una transazione diretta tra i due lati; le carte di credito) e quelle che non sono di transazione (ad esempio Facebook). Sostenendo che laddove vi sia una transazione diretta, il mercato rilevante è unico e contempla entrambi i versanti della piattaforma; se invece la piattaforma non è di transazione ma ad esempio di audience, l’analisi può concentrarsi soltanto su un versante. L’unica caratteristica che accomuna i mercati a due versanti è l’avere lati interdipendenti, poi sulla definizione economica di mercato a due versanti non c’è unità di vedute. Il report europeo evita di entrare in questa summa divisio, sottolineando come nell’ambito delle piattaforme a due o più versanti non è così decisiva se noi partiamo dal presupposto che i lati delle piattaforme sono interdipendenti».

«Secondo punto apprezzabile: l’analisi delle best price guarantee. Le best price guarantee sono di due tipologie diverse, quelle wide e quelle narrow. Il report ha il pregio di dar conto di come spesso la piattaforma deve difendersi dal rischio di free-riding: consentire una best price guarantee soltanto narrow è qualcosa che tiene in piedi sia i rischi anti-competitivi sia la protezione dal free-riding».

«Terzo punto interessante e condivisibile è quello dell’accesso ai dati. Il report, in maniera abbastanza netta, dice alla Commissione di escludere l’idea di poter considerare i data come delle essential facilities. Laddove quei Big Data siano realmente essenziali, a quel punto c’è la possibilità introdurre un rimedio regolatore che obbliga alla condivisione, come per esempio quello adottato nell’ambito della PSD2».

«L’aspetto più problematico del report è quello che riguarda la gestione della piattaforma. Il report, traendo spunto da Google Shopping, propende per l’attribuzione in capo alla piattaforma di una responsabilità regolatoria. Dietro questa responsabilità regolamentaria si apre la porta a tutta una serie di potenziali responsabilità. Io guardo con terrore all’ipotesi di implementare il margin squeeze. e non sono particolarmente convinto che un abuso da self-preferencing sia radicato nella casistica europea, come invece il report argomenta facendolo risalire al caso Microsoft. La piattaforma non è un bene comune».

CRISTINA SCHEPISI, PROFESSORESSA DI DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA, UNIVERSITÀ PARTHENOPE DI NAPOLI
«Più il consumatore ha fiducia, più consuma, accede ai servizi, si iscrive a piattaforme digitali. Il problema che io vedo con la digitalizzazione dell’economia sta nell’identificare il grado di consapevolezza del consumatore, che è collegato poi alla fiducia. Cediamo dei dati personali e possiamo anche sapere che lo stiamo facendo, ma non sappiamo davvero quanto valgono».

«Il report dice che la tutela dei dati personali può essere complementare agli strumenti dell’antitrust: più tutelo la persona, più freno un potere di mercato usando la leva antitrust e arrivo ad un risultato di tutela del mercato e del consumatore».

«La questione Amazon è differente da quella del Marketplace di Facebook: su Amazon vado per comprare dei prodotti; su Facebook non mi iscrivo per comprare ma per socializzare, e per “condividere” dei dati, c’è una volontarietà nel dare una serie di informazioni. Sul Marketplace di Facebook c’è già il mio profilo ma io non mi sono volntariamente iscritta. Facebook mi conosce e quindi può offrirmi tutta una serie di cose; sfrutta la rete dei miei amici, mi fa sentire “protetto”. Ottiene così la mia fiducia e quindi compro più facilmente».

«La domanda che mi pongo, che è sullo sfondo anche nel report, è: quand’è che possiamo considerare che il consenso sia stato liberamente prestato, nel momento in cui abbiamo di fronte un soggetto (un social, una piattaforma digitale) dal quale difficilmente riusciamo ad uscire? Il consenso lo stiamo sì dando volontariamente, ma spesso non abbiamo sostanzialmente analoghe alternative».

«Anche la categoria di consumatore e di produttore non è più così netta. In alcuni fenomeni di sharing economy si perde completamente la differenza tra produttore e consumatore. Quali sono le regole da seguire? Come considerare la piattaforma: un mero intermediario oppure un professionista (si veda Airbnb e Uber)?»

ALBERTO GAMBINO, PRESIDENTE DELL’ACCADEMIA ITALIANA DEL CODICE DI INTERNET
«Il tema della data protection è sempre più delicato. Lo sfruttamento commerciale e la profilazione, funzionali a forme di pubblicità mirate orienta le scelte dei consociati, utenti della rete. Il nuovo Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali (GDPR, Reg. UE 2016/679) si prefigge come obiettivo cardine quello di garantire “un elevato livello di protezione dei dati personali”, ponendo un freno alla frammentazione normativa in materia prodotta dalla diversa attuazione, nei vari Stati membri, della precedente Direttiva 95/46/CE. Per raggiungere lo scopo, il Regolamento si muove lungo due direttrici fondamentali: da una parte, attraverso una maggiore responsabilizzazione dei soggetti attivi del trattamento; dall’altra, fornendo agli interessati strumenti atti ad innalzare il livello di consapevolezza sull’uso dei propri dati. Entrambe le linee d’azione, se complessivamente considerate, producono come effetto quello di un innalzamento del livello di controllo sui dati, come già auspicato dal Garante europeo della protezione dei dati».

«Sull’altro fronte del diritto antitrust, emerge sempre più chiaramente come l’interesse del consumatore, specie nel mercato digitale, si rappresenti disgiuntamente dall’interesse dell’impresa in concorrenza. Salta definitivamente l’archetipo tradizionale dello schema: più concorrenza uguale più scelta di consumo; assioma legato a opzioni e benefici da un punto di vista squisitamente economico, ma non della qualità, che piuttosto richiede un surplus informativo anche a discapito dell’interesse imprenditoriale dei concorrenti».

«La recente configurazione dell’ecosistema digitale – caratterizzato da una pluralità di scambi ed interessi – coinvolge il recente dibattito sulla promozione della concorrenza e salvaguardia della natura aperta e della neutralità della rete. Il fatto che taluno offra al mercato una serie di informazioni selezionate mediante un criterio “partigiano” pone il quesito della relativa tutela di chi le riceve».

«Ritengo che sia la fattispecie delle pratiche commerciali scorrette l’idealtypus sul quale dirigersi, a segnalare che l’induzione degli interessi con percorsi comunicativi decettivi mini la libertà di scelta. Nel momento in cui vengono utilizzati una serie di dati attraverso pratiche di analytics – mediante un complesso di convergenze e di offerte – si cerca di “catturare” l’utente-consumatore, ma non fornendogli le informazioni di cui ha bisogno, bensì indirizzandolo verso una scelta preconfezionata (in quanto il paniere delle offerte esistenti ha permesso di individuarle anche sulla base dei dai dati forniti). Qui si inserisce anche l’AGCOM, là dove la decettività sia caratterizzante contenuti informativi».

«Ritengo invece non auspicabile la deformazione delle categorie e degli strumenti propri dei tre settori (Antitrust, Privacy e AGCOM) per aggredire fattispecie limitrofe. In quest’ottica volgerei lo sguardo più che sul valore economico dei dati, sulla diversa prospettiva dello sviamento della scelta dell’utente».

«Non possono però escludersi forme di intervento normativo ad hoc, che postuleranno un ritorno al primordiale significato di “trust”, ovverosia fiducia, accrescendola tanto nei mercati quanto negli stessi consumatori. Occorre, neanche troppo metaforicamente, aprire la cassetta degli attrezzi regolativi per adattarli all’obiettivo della trasparenza e controllo sui processi sottesi, perché si possa garantire una competizione fair delle imprese nell’orizzonte imprescindibile della missione europea della protezione di un consumatore-cittadino e non più cittadino-consumatore; endiadi questa che vuole segnalare la pervasività della matrice economica degli attori che governano la rete, fattore di rischio al travalicamento dei limiti dei diritti di matrice pubblicistico-costituzionale e/o universale».

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